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lundi, 16 mai 2011

La fine dell'Europa

La fine dell’Europa

Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/ 

L’Europa sta vivendo il momento più tragico della sua storia trimillenaria. Siamo dinanzi a eventi di portata epocale che, secondo tutte le previsioni, condurranno nel giro di pochi decenni alla pura e semplice estinzione fisica dei nostri popoli. Questa drammatica situazione sta precipitando lungo un piano inclinato, privo di ostacoli e a velocità crescente. L’Europa, quale è esistita dal Neolitico agli anni Sessanta-Settanta del Novecento, sta rapidamente scomparendo sotto i nostri occhi. L’Europa della nostra nascita, della nostra cultura, delle nostre città, di tutti i nostri valori, non è più già oggi la stessa. E nel breve volgere di una generazione sarà un ricordo del passato. Sarà diventata un’altra cosa. A leggere il recente libro di Walter Laqueur Gli ultimi giorni dell’Europa. Epitaffio per un vecchio continente (Marsilio) c’è davvero da rabbrividire. Nessun allarmismo a effetto, intendiamoci, non si tratta di un instant book a sensazione. È semplicemente una riflessione basata sui fatti. Che atterrisce per le prospettive che squaderna, solo osservando i dati già acquisiti e quelli in dinamica evoluzione. La questione di vita o di morte si riduce a due semplici, ma esplosivi fattori: denatalità e immigrazione.

Laqueur dà qualche cifra e avanza osservazioni elementari su dati che sono pubblici, alla portata di tutti, ma che nessuno divulga: «Fra cent’anni la popolazione dell’Europa sarà solo una minima parte di quello che è ora e in duecento anni alcuni paesi potrebbero scomparire». E aggiunge che «alcuni hanno sostenuto che se l’Europa sarà ancora un continente di qualche importanza duecento anni da adesso, sarà quasi certamente un continente nero». Poiché i bianchi sono sterili, non fanno e non vogliono fare figli, mentre gli immigrati di colore sono fertilissimi e si riproducono a tassi esponenziali. Tutto vero, si dirà, ma insomma si tratta di proiezioni parecchio lontane, nulla di cui preoccuparsi oggi… Non esattamente. La catastrofe è già in pieno svolgimento e il cappio si chiuderà tra breve. E nel corso della nostra stessa vita avremo modo di verificarlo non per sintomi, magari anche gravi come sta già accadendo, ma per una travolgente evidenza. Secondo le stime della Comunità Europea e delle Nazioni Unite, che l’autore riporta, la Francia, nel corso del secolo XXI, passerà dagli attuali 60 milioni di abitanti a 43, il Regno Unito da 60 a 45, la Germania da 80 a 32, la Spagna da 39 a 12…

L’Italia poi, dagli odierni 57 milioni, si troverà a contarne 15 verso la fine del secolo. Occorre ovviamente considerare che i dati riferiti a queste proiezioni sulle popolazioni europee dei prossimi decenni contengono il fatto che moltissimi di quei cittadini non saranno altri che i figli di recente e recentissima immigrazione. Tanto che le popolazioni europee in calo vedranno velocemente elevarsi il numero dei propri concittadini di origine non europea: maghrebini, mediorientali, asiatici, africani… Laqueur attira non a caso l’attenzione sul fatto che il declino demografico relativamente contenuto che si rileva nei casi di Francia e Gran Bretagna dipende essenzialmente dal «tasso di fertilità relativamente alto nelle comunità di immigrati, neri e nordafricani in Francia, pakistani e caraibici in Gran Bretagna». Cioè: le previsioni sulle popolazioni europee del prossimo futuro non riguardano la popolazione bianca che in una parte sempre meno numerosa… I bianchi europei, come già accade negli Stati Uniti – che nel 2050 vedranno il gruppo ispanico prevalere su quello anglosassone, e quello nero avvicinarglisi sensibilmente –, vittime della loro denatalità conculcata dalla società del benessere e del profitto, stanno andando incontro a un rapido inabissamento, che presto ne farà una minoranza minacciata di estinzione sul suolo europeo.

L’Europa orientale, sulla quale qualcuno si poteva fare delle illusioni di tenuta demografica, è investita da una sterilità ritenuta addirittura più micidiale, “catastrofica” la definisce Laqueur, con percentuali di decrescita spaventose. La Russia in cinquant’anni vedrà ridursi la sua popolazione dei due terzi. L’Ucraina viaggia a un ritmo di perdita di popolazione stimato al 43%, la Bulgaria al 34%, la Croazia al 20%… Lo studioso di statistica demografica Paul Demeny, nella rivista Population and Development Review, ha osservato che «non c’è alcun precedente di un crollo demografico così rapido in tutta la storia umana». Questo veniva segnalato nel 2003. In cinque-sei anni le cose sono ulteriormente precipitate. A fronte di questa inaudita contrazione delle nascite, si erge un contro-dato terribilmente minaccioso: l’esplosività demografica del Terzo Mondo, e in particolare di quella fascia territoriale che sta a diretto contatto con le frontiere meridionali dell’Europa: Nord Africa, Africa sub-sahariana, Medio Oriente. Esistono studi e previsioni semplicemente agghiaccianti. Un solo esempio: lo Yemen, che oggi conta 20 milioni di abitanti, ne avrà oltre cento nel 2050. Cento milioni di yemeniti, in un Paese povero di tutto e privo di strutture agricole e industriali, evidentemente non rimarranno mai a casa loro. Si sposteranno in massa. Sì, ma dove? Laqueur risponde con eufemistica pacatezza: «ci sarà una pressione demografica sull’Europa ancora più forte». Il solo Yemen – uno dei Paesi più piccoli – ben presto avrà dunque un esubero di ottanta milioni di persone da indirizzare verso l’Europa.

Ma gli scenari tratteggiati da Laqueur riguardano anche altro. L’immigrazione in atto. Si tratta di una pietra tombale di fabbricazione mondialista, sotto la quale sta per essere tumulata l’idea stessa di Europa. Quella che dal dopoguerra in poi è stata prima un’emigrazione per lavoro, cui seguì il ritorno quasi generale in patria, dagli anni Ottanta è diventata una crescente infiltrazione, infine assumendo, in questi anni, i contorni dell’incontrastato arrembaggio di massa. Non diciamo frenato o regolamentato, ma neppure deplorato. Al contrario: i governi, la stampa, gli esponenti della letale “società civile” asservita ai suoi tabù, l’alimentano di continuo. A questi ambienti della sobillazione tengono dietro gli esecutori materiali. Cosche criminali, agenzie umanitarie, volontariati onlus debitamente sovvenzionati, Chiese: ecco i protagonisti di quella potente lobby – come la definisce Laqueur – che ha per tempo individuato nella sollecitazione della disperazione di massa e nel suo incanalamento verso l’Europa il business del secolo. Un neo-schiavismo che sradica il nero o il giallo, lo stipa nelle periferie degradate delle città portuali del Terzo Mondo, infine lo dirige verso le centrali dello sfruttamento turbocapitalistico di ultima generazione, operando la devastazione di ogni comunitarismo, sia nell’ospitante che nell’ospitato: con una criminalità reale e un umanitarismo di facciata (spesso unendo le due cose in un’unica intrapresa industriale), si ottiene così la spaventosa tratta, che ha come conseguenza matematica due avvenimenti simultanei: l’annientamento dei tessuti etnico-sociali delle millenarie culture europee; lo sgretolamento e la disumanizzazione delle stesse realtà terzomondiste attirate in Europa.

Laqueur fornisce prove a getto continuo. Per dire, anziché la tanto sbandierata integrazione – maniacale fissazione degli utopisti – presso le moltitudini immigrate si hanno delinquenza, asocialità, diserzione dallo studio e dal lavoro (massicciamente offerti dai governi, secondo binari preferenziali stabiliti dalle istituzioni europee a discapito secco delle popolazioni autoctone) e alla fine un oceano di odio. Un odio aggressivo e inestinguibile, che gli immigrati – specialmente i giovani – nutrono per tutto quanto è europeo. Ad esempio, le rivolte della banlieu parigina del 2005 furono causate da «l’odio per la società francese». La banda etnica delle periferie metroplitane arricchisce il quadro dei paradisi multiculturali. In Gran Bretagna si tratta di neri contro indo-pakistani, a Bruxelles di turchi contro africani, a Parigi di islamici contro ebrei… Il risultato delle politiche immigratorie, sottolinea Laqueur, è che ovunque «si è sviluppata una cultura dell’odio e del crimine».

Mentre i nostri governi applicano il principio dell’autolesionismo sistematico, dando privilegi sociali (sussidi, alloggi, lavoro, depenalizzazione dei reati, permissivismo sempre e ovunque), gli immigrati sfruttano i congegni legali offertigli su un vassoio d’argento. L’esempio tedesco: gli assistenti sociali «hanno insegnato ai turchi come approfittare delle rete di protezione sociale, il che significa ottenere dallo Stato e dalle amministrazioni locali il massimo possibile di assistenza economica e di altro genere con il minimo contributo possibile al bene comune». Integrazione? Per milioni di immigrati, ovunque in Europa, «i problemi sono gli stessi: ghettizzazione, re-islamizzazione, alta disoccupazione giovanile e scarso rendimento nelle scuole».

Le organizzazioni degli immigrati del tipo della potente Muslim Brotherhood – incoraggiate dagli europei e cavalcate da sciami di imam, leader etnici, predicatori – finiscono prima o dopo per «ottenere ciò che vogliono». E, mentre gli europei perdono mano a mano la loro identità, accade al contrario che gli immigrati rafforzino la loro: «I turchi in Germania rimangono turchi anche se hanno adottato la cittadinanza tedesca; il governo di Ankara vuole che essi votino alle elezioni turche, e allo stesso tempo che essi, ovunque vivano, difendano gli interessi della Grande Turchia che rimane la loro patria».

Nel frattempo, irresponsabili politici di tutte le sponde – ne sappiamo qualcosa noi in Italia – spingono per offrire al più presto il diritto di voto agli immigrati. Vogliono la fine dell’Europa. Vibrano di quella febbre suicida di cui parlò Spengler a proposito delle società corrotte, senili, morte dentro. Laqueur parla di declino irreversibile per l’Europa. Ci invita a fare un giro per Neukölln, La Courneuve o Bradford, concentrazioni urbane completamente extra-europee. E si chiede come mai «ci si sia resi conto così tardi di questo stato di cose». Ma noi chiediamo a lui: è sicuro che gli europei abbiano capito in che situazione si trovano? Ottenebrati dalla propaganda mondialista e dalla paura di incorrere nel tabù del “razzismo”, sapientemente evocato, gli europei guardano dall’altra parte. Questo bel capolavoro umanitario che è l’Europa multiculturale viene infatti perseguito agitando come bastoni alcune infernali parolette, dietro alle quali si ripara il trafficante europeo di uomini e di ideali: accoglienza, solidarietà, diritti umani, etnopluralismo… Queste parole ipocrite nascondono la violenza del senso di colpa instillato a forza nella nostra gente. Hanno il rintocco della campana a morto per l’Europa.

* * *

Tratto da Linea del 9 gennaio 2009.

 

Luca Leonello Rimbotti

vendredi, 13 mai 2011

A Clash of Victimologies

A Clash of Victimologies

 

In recent days, a video has been circulating online depicting the savage beating of a customer at a Baltimore McDonald’s by two teenaged African-American females. Richard linked to it in one of his recent posts. Here it is again. The victim of the beating appears to be a Caucasian female. After repeatedly taking some rather brutal blows, the victim is shown apparently going into a seizure. Loose hair that had apparently been torn from her head (or wig) is shown on the floor near the victim. The employees of the McDonald’s in question apparently stood by and did nothing to assist the victim. The only effort at intervention was made by an elderly white female customer. The incident was filmed by a McDonald’s employee by the name of Vernon Hackett whom we are told has subsequently been dismissed from his position.

It has since been revealed that the victim was a 22-year-old transgender woman by the name of Chrissy Lee Polis. (For those unfamiliar with PC terminology, a “transgender woman” is roughly defined as a former “he” turned “she” in terms of self-identification though not necessarily surgical alteration.) It also turns out that Chrissy Lee Polis is an epileptic, which likely explains the onset of a seizure during the attack. The probable motivation for the attack was the two perpetrators having taken offense to the fact that Polis was attempting to use the women’s restroom. For a time, the video was being circulated in some white nationalist circles as a chilling example of a brutal crime being inflicted on a white person by ghetto blacks (which it clearly was). Upon the revelation of the victim’s proclaimed “gender identity,” some in the white nationalist milieu indicated their inclination to withdraw or scale back their sympathy. But clearly this was a horrific and despicable crime, regardless of the racial or sexual identities of either the victim or the perpetrator. Predictably, gay rights and “sexual minority” organizations have demanded that this incident be investigated and prosecuted as a hate crime.

Of course, what is interesting about this case is not merely that a violent crime occurred. Murders, assaults, robberies, and rapes are routine daily occurrences. Nor do the racial or sexual identities of either the victim or the perpetrators make this crime particularly unique. The fact that the crime occurred at a McDonald’s is no big news either. Someone was shot to death at a McDonald’s a few blocks from my residence some years ago. If Chrissy Lee Polis had been just another “normal” white person, this case would be getting scarcely any attention at all. There might be a few posts on various paleoconservative, white nationalist or alternative right websites about the hypocrisy of a mainstream media that turns hate crimes against racial or sexual minorities into front page news and national scandals whose memory lingers for years (the Matthew Shepard case, for instance) but ignores comparable crimes committed by minorities against whites (for example, how many Americans have ever even heard of the Wichita Massacre?). But that would be about it.

If she had not been a sexual minority, the victimization of Chrissy Lee Polis would not likely be receiving the attention of the Huffington Post, Daily Kos, San Francisco Chronicle, and other representatives of leftist opinion. Nor would she be receiving the attention of London’s Daily Mail, the Australian, the India Times, or other outlets of the international press. It is unlikely that she would be getting the recognition of even neocon mouthpieces like Lucianne.Com. Even the “movement conservative” press generally had little to say about the events in Wichita at the time of their occurrence. Nor would her attackers be facing the prospect of having hate crimes charges brought against them. In fact, the crime would likely be just another among countless routine criminal assaults reported to local police departments, though if Chrissy Lee Polis’ attackers had been skinheads or stereotypical “white trash” types rather than equally stereotypical “ghetto” types it is likely her case would be receiving much more attention than it currently is.

What we have here is an example of the “clash of victimologies” that is likely to become more evident as political correctness becomes ever more institutionally entrenched and as the realities of demographic transformation become ever more difficult to ignore. If indeed the two girls who perpetrated this are prosecuted for a hate crime against a transgendered woman, tensions between the organized African-American lobby and the organized “LGBT” lobby are bound to escalate. It is the standard political line of Sharpton-esque race hustlers and demagogues that virtually every black criminal, no matter how obvious the offender’s guilt or how malicious the offender’s actions, is somehow a victim of racism, social injustice, white privilege, this, that, or the other thing. The most obvious and celebrated case of this type was the elevation of O.J. Simpson, a wealthy celebrity with a lengthy history of severe domestic violence who became a cold-blooded double murderer, into an ostensible civil rights martyr, as though he were some poor black kid railroaded for a petty burglary by racist cops and unable to afford a competent defense attorney.

It will be interesting to observe to what degree the self-appointed spokesmen for African-Americans call for solidarity with the two teenaged hooliganettes, make excuses for them, attempt to absolve them of responsibility for their actions, or attribute their legal status to racism. Perhaps they will try to make the issue go away by simply ignoring it. However the high priests of the civil rights industry respond to this situation, this incident is bound to raise doubts in the minds of many “LGBT” people about who their political friends actually are. After all, a transgendered woman who attempted to wander into the women’s restroom in a McDonald’s located in some stuffy white bread suburb might get some funny looks, maybe some teasing. At worst, some shocked little old lady or concerned soccer mom might summon a couple of patrol cops who in their bewilderment would go about their usual routine of asking for ID, running a name check, issuing a warning, and cracking jokes as they drove off in the squad car. No doubt the recipient of such treatment would consider herself harassed and embarrassed, but it hardly compares with being a victim of aggravated assault bordering on attempted murder. No doubt many from the “LGBT” community might begin to recognize that “victim” status does not necessarily translate into “tolerance," and subsequently start to wonder if replacing the traditional European-American majority with Third World immigrants would be in their best interests, given that the majority of immigrants originate from countries where “sexual minorities” are not exactly honored.

This incident has created an interesting dilemma for the Left. Which class of official victim groups are they going to side with on this one? The Battle of McDonald’s provides an illustration of why, I believe, the Left as it is presently constituted will fail in the long run, whatever its present level of institutional influence and however much it may be able to endure for a few more decades. The Left will eventually self-destruct because its core tenets are self-contradictory and cannot be sustained in real world social practice. The Left’s core constituent groups: racial minorities, immigrants, the LGBT community, feminists, “secular humanists,” the black and Hispanic underclass, wealthy Jews, etc. have interests that are ultimately incompatible with one another. As the Left becomes more powerful in the short run, as the realities imposed by mass immigration become more apparent, and the tensions between the official victim groups begin to surface to an ever greater extent, the coalition of the officially oppressed will begin to self-cannibalize. Each interest group within the victimology paradigm will begin to battle each other for the “More Oppressed Than Thou” championship title. This will be the death blow for PC. It’s only a matter of time.

 

 
Keith Preston

Keith Preston

Keith Preston is the chief editor of AttacktheSystem.com and holds graduate degrees in history and sociology. He was awarded the 2008 Chris R. Tame Memorial Prize by the United Kingdom's Libertarian Alliance for his essay, "Free Enterprise: The Antidote to Corporate Plutocracy."

vendredi, 15 avril 2011

Mange ta mort!

 

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MANGE TA MORT !

 

Ex: http://tpalsace.wordpress.com/

« Rien n’est poison, tout est poison, seule la dose fait le poison »

Manger c’est mourir un peu.  Cela n’a jamais été aussi vrai au regard des nombreuses études et reportages qui ont été faits ces derniers mois et qui sont particulièrement difficiles à digérer.

Nos plats préparés industriellement, nos jolis emballages ou nos poêles qui n’attachent jamais cachent bien souvent des ennemis invisibles et nocifs : les polluants chimiques.

Le message répété à longueur d’année par les medias «  mangez cinq fruits et légumes par jour » est-il vraiment profitable pour notre santé ? Bien que censés être bon pour notre corps, les fruits et les légumes sont, pour beaucoup, gorgés de résidus de pesticides identifiés.

Ainsi, bon nombre de produits d’importation tels que la pomme du Brésil, le haricot vert du Kenya, la tomate d’Italie, la pêche d’Espagne, le citron d’Argentine, le riz basmati d’Asie contiennent des pesticides interdits en France mais qui finissent pourtant sur nos étals pour insuffisance de contrôle par les services de l’Etat.

La demande faisant l’offre, on trouve normal aujourd’hui de manger, dans l’indifférence du cycle des quatre saisons, des fraises d’Espagne, sans goût, dès le mois de mars, des pommes bien luisantes et parfaitement calibrées toute l’année alors qu’il nous serait facile de privilégier plutôt les produits de proximité et de saison vendus par nos maraîchers locaux.

Les pesticides sont utilisés par l’agriculture mondiale pour éliminer les insectes ravageurs, les mauvaises herbes et les champignons ; on en retrouve des traces dans 59 % des fruits et 30% des légumes sur les étals (selon une étude de 2008 sur un échantillon de plus de 3000 produits.)

Quand l’agriculteur sulfate son champ doté d’un joli masque à gaz, les contaminants issus des procédés industriels se retrouvent dans l’air, polluant l’atmosphère, l’eau, les sols, l’herbe que broutent les vaches, tuant la faune locale, sans parler des insectes pollinisateurs que l’on décime  au profit du consumérisme planétaire mais qui sont pourtant un élément indispensable à l’équilibre vital de la planète. Mais que diable vaut la vie de quelques abeilles pour les industriels se remplissant les poches dans leur confort citadin ?

D’autres polluants (mercure, plomb, arsenic, dioxine, PCB) atterrissent également dans nos assiettes au travers de notre consommation de beurre, lait (même bio), viandes, poissons et crustacés.

Ce sont d’ailleurs les poissons dits gras tels que le thon, le saumon  ou l’espadon qui fixent dans leurs graisses les métaux lourds (arsenic, mercure et cadmium) et les pesticides les plus persistants comme le DDT. C’est le Capitaine Igloo qui commence à tirer la gueule : avec le thon, le saumon et l’espadon fais gaffe à ton colon !

Rajoutons à notre liste (non exhaustive malheureusement) les composants des emballages plastique qui migrent dans la nourriture, en particulier sous l’effet de la chaleur avec le micro-ondes.

Eh oui, le micro-ondes, arme redoutable de la ménagère moderne, est un véritable déversoir de poisons tels que le bisphénol A contenu dans les plastiques alimentaires (plats cuisinés, revêtement interne de certaines boîtes de conserves et canettes, bouilloires et récipients plastiques, films alimentaires…) Bref, le micro-onde est un appareil tout juste bon pour un resto chinois et ses 115 menus à la carte.

Pour les matériaux de cuisson, c’est le PFOA( acideperfluorooctanoïque) qui est mis en cause. Il est  souvent utilisé dans la fabrication de nombreux produits comme les poêles antiadhésives sous la marque Téflon, les textiles imperméables à l’eau mais perméable à l’air, les boîtes à pizza etc.

Le Cancer d’Or revient aux industriels peu scrupuleux, les tricatels de la merde en boîte, rois des additifs, conservateurs, colorants et arômes en vue de donner une couleur, un goût, une texture aux produits artificiels. En principe, la présence de substances à l’état de traces dans notre corps n’est pas dangereuse : un poison à dose infinitésimale n’altère pas notre santé, mais une centaine par jour devient néfaste.

Ainsi, si l’on considère la consommation quotidienne d’un jeune enfant ou même de certains adultes adeptes des allégations fantaisiste et alléchantes des industriels, la nourriture industrielle ingurgitée chaque jour est un véritable cocktail d’additifs qui condamne inéluctablement à un futur cancer, des troubles hormonaux ou neurologiques, une hyperactivité, un diabète, une obésité, des problème de fertilité…La liste ne cesse de s’agrandir.

OUI l’industrie chimique et alimentaire est responsable en très grande partie des maladies chroniques (non infectieuses) qui représentent, selon l’Organisation Mondiale de la Santé 86 % des décès et 77% des pathologies en Europe.

Barns

Voici de très bons reportages à voir et disponibles sur le net : « Le Monde selon Monsanto », « Notre Poison Quotidien », « Alerte dans nos Assiettes », « Super Size Me », »Homo Toxicus », « L’Emballage qui Tue » etc…

mercredi, 13 avril 2011

Transexualismo y Constitucionalismo: Por qué tantos derechos?

Por Eduardo Hernando Nieto
 
Ex: http://eduardohernandonieto.blogspot.com/ 

Publicado en: "Los Registros y las Personas", Lima, Reniec, 2010

transsexual para o katrina 16022010.gifEl artículo 2 inciso 1 de nuestra Constitución señala que “toda persona tiene derecho a la vida, a su Identidad, a su integridad moral, psíquica y física a su libre desarrollo y bienestar. El concebido es sujeto de derecho en todo cuanto le favorece” y el artículo 19 sostiene también que todos los peruanos tienen derecho “a su identidad étnica y cultural. El Estado reconoce la pluralidad étnica y cultural de la Nación”. Así pues, el derecho a la identidad tiene un lugar relevante dentro de nuestro ordenamiento jurídico, sin embargo, lo que no se dice en la constitución es que cosa debemos entender por identidad o que es lo que el derecho – o los jueces - deben entender por tal a fin de poder determinarse en que casos se podría ver afectado o no este derecho.

De acuerdo a algunas clásicas definiciones doctrinaras desde la teoría del derecho moderno y el derecho civil se entiende por identidad el “ser en si mismo” siendo el modo en que la persona se muestra dentro su sociedad , también nuestro destacado académico Carlos Fernández Sessarego por su parte sostiene que la identidad es todo lo que hace que cada cual sea “uno mismo” y no “otro” y que permite que se conozca a la persona en su “mismisidad” en cuanto a lo que es su esencia humana

Se entendería que en estas dos perspectivas habrían matices relevantes en la medida que en un primer caso parece tratarse de una definición más bien estática mientras que en la siguiente definición si consideraríamos una propuesta dinámica, así la identidad inicialmente puede apreciarse en cuestiones como el sexo, la edad etc., en cambio, frente a la segunda esperaríamos una concepción más bien de carácter evolutivo en base a los mismos cambios que se pueden verificar dentro de la sociedad y que no solo involucrarían aspectos básicos registrales (estatus personal) sino que abarcarían las múltiples actividades del sujeto así como “el patrimonio cultural e ideológico de la persona”.


Sin embargo, mi interés en este texto está más bien en explorar en torno a la “radicalización” del proyecto existencialista que en algunos casos y paradójicamente podría percibirse en términos de un creciente nihilismo, es decir, en la negación de los valores y la indiferencia respecto a los proyectos y fines humanos . Una situación como esta tendrá que traer cambios relevantes en toda la realidad del derecho moderno ya que también esta etapa nihilista es conocida como “postmoderna” o deconstructiva lo cual implica afirmar la incertidumbre y también a relativizar cualquier concepto o estructura, vale decir, si el derecho moderno se creó a partir de la metafísica cartesiana en donde se afirmaba la distinción entre sujeto y objeto (cosa pensante y cosa extensa) y también una jerarquía entre ambos (el sujeto se ubica siempre por encima del objeto o el sujeto se coloca en el centro mientras que el objeto en la periferia), ahora más bien encontraríamos un cuestionamiento a cualquier posibilidad de ubicar puntos fijos en el espacio y con ello también negaríamos la posibilidad de afirmar al sujeto. Es decir, entraríamos a una etapa en la cual si el sujeto se puede desplazar y ubicar en cualquier punto entonces no solo habría dificultad para encontrarlo sino que también generaría un enorme problema para IDENTIFICARLO, es más podría ocurrir que el mismo sujeto se cree y recree así mismo según su propia voluntad o estado de ánimo y sería solamente la VOLUNTAD la que defina todo.

Precisamente, el problema que quisiera destacar ahora es el de los efectos que ocasiona al derecho a la identidad y al Estado el paradigma postmoderno pues los tiempos han cambiado mucho y ya no nos encontramos en una época en la cual las perspectivas existencialistas podían brindar a esta temática ciertos aires progresistas y libertarios sino más bien ahora con el concurso de la técnica se podrían plantear grandes conflictos y controversias sencillamente porque con el agregado tecnológico (que se debe leer también como un poder o una potencia otorgado al individuo) el existencialismo (que sirvió mucho para afirmar el derecho a la identidad como lo sostuvo Fernández Sessarego) podría contribuir hoy a incrementar la incertidumbre y generar más problemas que soluciones, es más podría convertirse paradójicamente en una amenaza a la misma autonomía personal
.

Por ejemplo recientes casos como el del escocés Norrie May-Welby quien no hace mucho ha sido reconocido como un sujeto neutro ya que según él no se sentía augusto ni con el sexo masculino ni con el femenino sería solo la punta del iceberg de una transformación radical que podría experimentar el derecho moderno construido bajo los pilares del racionalismo cartesiano y que ahora no podría contener todos estos cambios resultado de la tecnología, el avance científico sumados a un individualismo radical que buscaría ahora que las leyes se adapten a la voluntad del sujeto y no a la inversa como habría sido lo natural en los orígenes del derecho.

Pero volviendo al caso citado, se habla por ejemplo aquí de un no sexo o un sexo neutro, lo cual en si mismo resultaría no solo confuso sino que también podría dar pie a múltiples problemas legales por ejemplo al establecerse – como ocurre en nuestro ordenamiento - que el matrimonio solo corresponde a la unión de un hombre y una mujer - , excluyéndose cualquier otra posibilidad ¿Entonces habría también que facilitar nuevas formas de unión entre personas neutras tal y como se viene implementando en el caso de los homosexuales en diversos países? Sin embargo, no faltarán quienes sostengan que el caso de May – Welby , es solamente anecdótico o insólito por lo que no habría que preocuparse demasiado respecto a la necesidad de legislar sobre el particular. Empero, igual podría haberse dicho años atrás cuando alguien decidió cambiar de sexo (transexual) a través de una intervención quirúrgica y su apariencia contrastaba ahora con su documento de identidad en el que se consignaba su identidad original (por ejemplo hombre). En esas circunstancias se plantearon una serie de acciones legales destinadas a modificar no solamente el nombre sino también el sexo que se señala en el documento de identidad. Evidentemente, estos casos han ido en aumento igual en nuestro país produciéndose además cambios acelerados al respecto y no extrañaría que también a mediano o corto plazo cambios legislativos drásticos.

La posibilidad de que casos como el de May – Welby en realidad pueden plantearse con cierta facilidad en estos tiempos se debe indudablemente a la presencia del liberalismo neutral que acompaña regularmente al derecho contemporáneo, es decir, la tesis según la cual nadie puede o debe juzgar las preferencias de otros ya que hacerlo implicaría afectar la autonomía individual y no respetar las elecciones personales. En realidad, es el liberalismo el que ha venido promoviendo la tesis de la neutralidad a partir de lo que significa la crítica al Estado en tanto éste pueda interferir en las elecciones de vida de cualquier ciudadano, así mismo, ellos plantean una distinción entre lo que significa permitir una conducta e impulsarla o promoverla, vale decir, que para ellos el hecho que se permita la pornografía no implicaría que se estuviese promocionándola o se estuviese a favor de ella . Sin embargo, sus críticos conservadores no pensarían de la misma manera y considerarían que no es viable tal distinción a lo que los liberales replicarían finalmente que ellos no es que tendrían que estar a favor de la pornografía o alguna otra conducta de este tipo sino que lo que ocurre es que valoran sobre todo la tolerancia y la libre elección .


Así pues, el modelo liberal prevaleciente se sustenta en la defensa del valor tolerancia por sobre todas las cosas aunque a decir verdad es una tolerancia que resulta sin fundamentos pues si se parte del carácter subjetivo de todo valor entonces la tolerancia no podría justificarse ya que ningún valor podría ser objetivo. Esta contradicción del liberalismo los conduciría a un callejón sin salida ya que la concepción de liberalismo que manejan descansaría en realidad en el relativismo.

Sin embargo, a fin que el discurso liberal no sea contradictorio y que la defensa de la elección personal y la tolerancia estén justificadas entonces la “tolerancia” de conductas como la de la sexualidad “neutra” o la de la “transexualidad” o la unión de personas del mismo sexo tendrían que ser sustentadas en algún valor (tolerancia). ¿Cuál sería entonces la base de la tolerancia? Se entiende que existen dos morales modernas que lo podrían justificar el utilitarismo y la moral de los derechos Kant , sin embargo, ambas resultan siendo fallidas como lo pueden señalar diversos teóricos perfeccionistas , republicanos democráticos y comunitaristas , sea porque el utilitarismo no considera a todos como seres autónomos (algunos son medios para los fines de otros) sea porque la moral de los derechos se basa en una distinción que no se puede sostener, vale decir, la distinción entre lo correcto y lo bueno . Entonces si no hay justificación para la tolerancia (que si podría ser justificada en otros modelos no neutrales ciertamente) resulta difícil aceptar las tesis liberales. Es más si no fuesen acertadas las críticas contra la moral de los derechos y la tolerancia estuviese justificada, entonces también tendría sentido preguntarse ¿por qué solo la tolerancia y porque no otros valores?. Sin duda, la discusión sobre los valores será una constante en los últimos años.


Ciertamente, dentro del desarrollo de la teoría jurídica contemporánea se puede encontrar un auge de las llamadas corrientes postpositivistas del derecho que enfatizan el aspecto de la corrección antes que de la validez normativa , por ejemplo una muestra de estas nuevas perspectivas sería el caso del filósofo del derecho argentino (fallecido prematuramente) Carlos Santiago Nino, para él, el derecho debía ser entendido como la institucionalización de procedimientos (deliberativos) que nos ayudan a la solución de controversias y que también estimulan la Cooperación social, dentro de un marco de defensa de la autonomía personal, la inviolabilidad de la persona y la dignidad . En este sentido, se entendería que la base de su discurso está en los derechos humanos (autonomía, inviolabilidad y dignidad) a partir de los cuales se plantearían deliberaciones conducentes a resolver controversias mediante la aprobación mayoritaria. (Definiendo su enfoque como deliberativo democrático)

Así pues, las reglas de la democracia, como por ejemplo las que imponen que no puede haber discriminaciones en virtud de la raza, el sexo, condición económica, etc.; que el voto de los ciudadanos debe tener igual valor; que las decisiones políticas colectivas se toman por el procedimiento de la mayoría; que debe haber alternativas reales; que los representantes se eligen periódicamente; que no se pueden violar los derechos de la minoría; genera un procedimiento de toma de decisiones similar, según Nino, al procedimiento que rige el discurso moral.

Así por ejemplo, Nino podría establecer ciertas reglas concernientes a los derechos humanos como el afirmar que los derechos humanos son derechos morales que posee todo ser humano independientemente de contingencias tales como el sexo, la religión o la nacionalidad y del hecho de que sean o no reconocidos por el gobierno o que la función de tales derechos es evitar que las personas sean usadas como medios para satisfacer los objetivos de otras personas, de entidades corporativas o del gobierno entre
otras, quedando explícitamente señalado que la función de todo Estado Liberal debería ser la de la promoción de los citados derechos (como una obligación moral)

Un discurso como este que a diferencia del positivista clásico institucionaliza y moraliza los derechos individuales sin dudas que ha servido para facilitar la legalización favorable a distintas conductas y hechos que antes no se habían ni siquiera pensando (cambio de sexo por ejemplo), la ampliación del derecho de autonomía y la no injerencia de otros con respecto a las elecciones personales (neutralidad) por ejemplo serían considerados como formas de satisfacer los estándares propuestos por esta moral de los derechos individuales.

Justamente, esta tendencia postpositivista en su faceta llamada neoconstitucionalista, lo que hace es definir lo jurídico ya no desde la mera legalidad sino desde la constitucionalidad (principios) y en la medida que los principios son por su naturaleza indeterminados entonces es fácil advertir que mediante interpretaciones correctoras extensivas o “conforme a” la Constitución se podría suplir la falta de regulación o vacío al respecto y resolver entonces los casos que se presenten como seria por ejemplo el del cambio de identidad sexual y su correspondiente reconocimiento por medio de la generación de un documento de identidad. (O finalmente el del reconocimiento de la “no identidad” como ocurrió en Australia recientemente)

En síntesis, la etapa postpositivista favorece sin duda la discrecionalidad y esto viene resultando muy favorable para la defensa de diversos intereses o deseos “subjetivos”, los mismos que como vimos son ahora potenciados por la tecnología y nos llevan hacia esta realidad de la “transexualidad” o de la “neutralidad” o de sabe Dios que otro nuevo concepto podría ser conocido en el futuro mediato. Postpositivismo y Postmodernidad convergerían entonces en la defensa radical de la subjetividad moderna y el derecho parece seguir sin ninguna oposición o respuesta esta tendencia. Esta corriente en realidad nació ya con el “existencialismo” (Fernández Sessarego) que promovió esta suerte de identidad “dinámica” que parecería responder más bien a una suerte de moralidad social lejos de cualquier vínculo metafísico, luego el positivismo (que fue impulsado por la modernidad dicho sea de paso) dio pasos adelante en esta vertiente individualista aunque mantuvo mal que bien cierta idea de orden y de predictibilidad, tratando además de armonizar en la medida de lo posible la autonomía individual con la autonomía social, merced también al principio del daño al tercero y considerando que el objetivo era lograr conformar una comunidad de seres autónomos (Kant) y preservar la vida de los súbditos (Hobbes). Finalmente, la postmodernidad por su lado atacaría la tesis de la seguridad, el orden y la predictibilidad (lo cual permitiría la inserción de conceptos como el del “No Sexo”) mientras que el postpositivismo se encargaría de facilitar la concreción de los deseos individualistas gracias a la indeterminación de los principios liberales.

CONCLUSION

Mientras que las tesis liberales planteaban la distinción entre permitir y promover junto con la neutralidad y la tolerancia en el campo jurídico pronto las tesis positivistas que se alineaban en cierto sentido con el liberalismo pasaron a convertirse en neoconstitucionalismo y a “comprometerse” con los valores con lo cual ya no tenía mucho sentido hablar de la tolerancia, el derecho ahora – como lo sostenía Nino – debería promover la voluntad individual.
Los liberales dicen que la moral de los derechos individuales se justifica en sí misma, sin embargo, no sé si esto sea suficiente para poder afirmar que éstos realmente deben de ser aceptables, lo que parece más bien es estar ante un razonamiento de carácter circular , entiendo que en el mundo antiguo o en contextos no occidentales “la transexualidad” o la “indeterminación sexual” no fueron mayor problema para la marcha de sus civilizaciones que igualmente aportaron mucho en el desarrollo de nuestro mundo actual, por ello no veo porque los legisladores, los jueces o los poderes de facto deban tener tanto interés en legitimar estas situaciones o cualquiera otra “políticamente correcta” sin plantear un análisis más profundo respecto al porque debería legitimarse dichas conductas o porque es que se tendría que reconocer cualquier identidad según la voluntad del demandante, amparadas en la vaguedad de la “tolerancia". La defensa de la autonomía personal no necesariamente debe implicar acceder siempre a cualquier pedido o acceder de modo inmediato a cualquier capricho, por más atractivo que sea formulado sin tomar en cuenta también la manera como estos nuevos derechos podrían afectar la marcha de lo que fue considerada una civilización de progreso y bienestar colectivo.

Cocaïne

Cocaïne

par Xavier EMAN

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/

cocaine.jpgLes sectateurs acharnés de la démocratisation tous azimuts et de l’égalitarisme généralisé peuvent se réjouir : jadis drogue des élites politiques, des rock stars écorchées vives et des traders épuisés par leurs gesticulations boursières, la cocaïne est en passe de devenir le stupéfiant de monsieur tout le monde, la came du citoyen lambda, le passeport pour la défonce de tout un chacun.


C’est au milieu des années 2000 que la poudre blanche a glissé des mains des nantis à paillettes pour se répandre dans l’ensemble de la société et dans la plupart des secteurs professionnels, tout particulièrement le BTP, la restauration ou le commerce, souvent à titre de stimulant (1).

La cocaïne est ainsi devenue la deuxième drogue la plus consommée en France (et en Europe), juste derrière le cannabis qui voit sa domination menacée. Le petit joint n’a en effet plus vraiment la cote auprès des nouvelles générations pour lesquelles il s’est tellement banalisé qu’il n’offre désormais plus le degré minimum de frisson transgressif. Les post-soixante-huitards enfumés du bulbe, qui trouvaient très « sympa » et très « progressiste » de rouler leurs « bédots » devant leurs rejetons et même d’en partager avec eux, en sont donc pour leurs frais. Pas plus qu’elle ne désire s’habiller comme eux, leur progéniture ne veut se cantonner aux drogues de papa-maman. Passage donc à la vitesse supérieure : en route pour la cocaïne !


Les causes de cette spectaculaire extension de la consommation de « poudre blanche » sont multiples. Tout d’abord, il y a la saturation du marché américain qui a vu les flux de trafics se réorienter vers la vieille Europe. Une hausse de l’offre qui a entraîné une importante diminution des coûts pour le consommateur. Ainsi, de 1997 à 2007, le prix du gramme de cocaïne a chuté de moitié, passant de 120 à 60 euros environ.

Le « rail » coupe d’abord l’axe Auteuil, Neuilly, Passy

Les plus importants pays producteurs de cocaïne sont situés en Amérique latine, la Colombie, le Pérou et la Bolivie se partageant le marché. Selon les sources officielles américaines, les plantations d’arbustes à coca en Amérique latine produisent annuellement de 900 à 1 000 tonnes de cocaïne, démontrant au passage l’échec total de la « guerre à la drogue » cornaquée par les Etats-Unis dans la région.


Dans l’Union européenne, selon l’Observatoire européen des drogues et des toxicomanies, 10 millions d’adultes entre quinze et soixante-quatre ans ont consommé cette drogue au moins une fois. 4,5 millions en ont consommé au cours des douze derniers mois et 2,5 millions durant les trente derniers jours.


En France, le nombre de consommateurs de cocaïne parmi les 12-75 ans est estimé à environ 1 million de personnes, avec une hausse spectaculaire en dix ans, ce nombre ayant plus que doublé de 1995 à 2005.


La cocaïne est désormais partout et il n’a jamais été aussi facile de s’en procurer. Si les lascars de banlieues ne dédaignent pas d’ajouter la « CC » à leur panoplie de Tony Montana de supérettes Franprix, c’est toutefois essentiellement dans les classes moyennes et moyennes-supérieures des centres-villes que la « mode » de la ligne de poudre tend à devenir un véritable phénomène sociétal.

Les ados accros ? Des toxicos mornes et sordides

Les adolescents des lycées « chics » en consomment notamment de plus en plus jeunes et de plus en plus fréquemment. Ayant déjà expérimenté le cannabis et les cigarettes dès la cinquième ou la quatrième, leur curiosité et leur goût de la transgression sont titillés dès leur passage en seconde par l’image de la cocaïne, cette drogue largement représentée à la télévision et au cinéma, généralement dans un cadre considéré comme « valorisant » par les jeunes (luxe, fêtes, « gangsters », show-biz…).


Largement pourvus en argent de poche par des parents souvent démissionnaires cherchant à compenser matériellement leur absence physique ou affective, les adolescents peuvent alors recourir à la « coke » pour meubler l’ennui trop nourri de leurs soirées, stimuler leur libido déjà blasée et noyer sous les délires hallucinés leur nihilisme et leur absence de perspectives autant que de passions. Cette drogue ?, stimulant les « performances », leur permet également de s’arracher à cette espèce d’introversion angoissée, proche de l’autisme, caractérisant une génération étouffée de technologie et de virtualité qui ne maîtrise désormais que très imparfaitement les modes de communication « directe », ceux ne permettant pas l’usage d’un écran protecteur et rassurant.


Bien informés, les ados connaissent parfaitement les risques et dangers de la cocaïne (même s’ils minimisent généralement, comme tous les toxicomanes, leur « addiction » au produit), mais les effets qu’ils recherchent priment sur la crainte de conséquences toujours considérées comme lointaines.

Des salariés qui se « dopent » comme de vulgaires coureurs du Tour de France

Ce qui frappe le plus dans l’observation de ce mode d’utilisation de la cocaïne, c’est que son caractère prétendument « festif » disparaît assez vite au profit d’une consommation morne et compulsive. Les adolescents et jeunes adultes ne sortent même plus des appartements où ils se réunissent pour « sniffer » et où la drogue devient peu à peu le centre unique d’attention, la seule raison d’être du rassemblement, le sujet exclusif des conversations. Une hiérarchie sordide s’établit alors au sein de la bande de zombies, en fonction des quantités possédées par les uns ou les autres, de la complaisance à laisser les filles « taper » sur ses propres rails ou de la qualité du produit « offert » au groupe.


Souvent, pour remplacer ou compléter les mannes parentales, les jeunes consommateurs de cocaïne n’hésitent pas à « dealer » dans leur entourage des produits généralement coupés pour en améliorer le bénéfice. Ce développement d’un « micro-trafic » de proximité, assez difficilement contrôlable, est également l’un des facteurs du développement drastique de l’usage de la cocaïne en France, ces dernières années.


Dans le monde du travail, l’usage de cocaïne peut revêtir deux principaux aspects. Soit il est la continuité à l’âge adulte de ces pratiques « adolescentes » devenues « addictives », soit il peut être « causé » par l’environnement professionnel lui-même, le travail moderne étant, dans de nombreux secteurs, toujours plus stressant et exigeant en termes d’efficacité et de rendement. L’activité professionnelle travail étant devenue un sport de haut niveau au sein duquel les participants doivent chaque année améliorer leurs performances, les salariés se « dopent » comme de vulgaires coureurs du Tour de France.

L’ère du vide et de la poudre blanche

Selon la Mission interministérielle de lutte contre la drogue et la toxicomanie, plus de 10 % des salariés ont ainsi besoin de drogue pour affronter leur travail. Un pourcentage qui ne cesse de croître, notamment du fait de la pression libérale exercée sur les secteurs jadis « protégés ».
Si les professions les plus touchées par la consommation de cocaïne sont celles des banques, des transports routiers, du BTP, de la restauration et du monde médical, les services publics en cours de privatisation sont également de plus en plus exposés. Ainsi les services médicaux de toxicologie traitent-ils par exemple un nombre croissant de salariés de la Poste, établissement qui cherche à offrir toujours davantage de services avec de moins en moins de personnel, les guichetiers récoltant alors le mécontentement et parfois la violence, verbale ou physique, des usagers mécontents.


Qu’il soit dit « festif » ou « productiviste », l’usage exponentiel de cocaïne est indéniablement un nouveau symptôme de ce « désir de mort » qui semble caractériser notre modernité occidentale subclaquante.


Ajoutant la fuite en avant chimique à l’échappatoire virtuelle, nos contemporains cherchent à s’extraire le plus totalement possible d’une réalité devenue insupportable à force de désenchantement et de désacralisation. Pour meubler l’attente du tombeau, ils tentent donc, hagards et épuisés, de trouver dans les stimuli artificiels de la poudre blanche et de ses avatars quelques lueurs perçant encore la désespérante obscurité d’un quotidien qu’ils n’ont plus la foi ni la force de vouloir révolutionner.   


Xavier Eman

1_Le Code du travail interdit les prélèvements urinaires ou sanguins  en entreprise pour détecter d’éventuelles traces de drogues, en dehors des postes dits « de sécurité ».

 

vendredi, 08 avril 2011

Tout s'accélère: la maladie de l'urgence

Tout s’accélère : la maladie de l’urgence

par Pierre LE VIGAN

2866996630_1.jpgTout s’accélère. Nous mangeons de plus en vite. Nous changeons de modes vestimentaires de plus en plus vite. L’obsolescence de nos objets quotidiens (téléphone mobile, I-Pad, ordinateur, etc.) est de plus en plus rapide. Nous envoyons de plus en plus de courriels, ou de S.M.S. Nous lisons de plus en plus d’informations en même temps (ce qui ne veut pas dire que nous les comprenons). Nous parlons de plus en plus vite : + 8 % de mots à la minute entre l’an 2000 et 2010. Nous travaillons peut-être un peu moins mais de plus en plus vite – conséquence logique de la R.T.T. Les détenteurs d’actions en changent de plus en plus souvent : la durée moyenne de possession d’une action sur le marché de New York est passée de huit ans en 1960 à moins d’un an en 2010. Nous imaginons et produisons des voitures de plus en plus vite. Nous zappons d’un film à l’autre de plus en plus vite : les films ne durent même pas une saison, parfois moins d’un mois. Ils passent sur support D.V.D. de plus en plus rapidement après leur sortie en salle, parfois presque en même temps. Les films anciens (qui n’ont parfois que trois ans) que l’on peut encore voir en salles diminuent à grande vitesse : l’oubli définitif va de plus en plus vite. C’est ce que Gilles Finchelstein a bien analysé sous le nom de La dictature de l’urgence (Fayard, 2011). L’urgence va avec la profusion, la juxtaposition des divers plans du vécu et la dissipation. Dans le même temps que la durée de vie des films est de plus en brève, pour laisser la place à d’autres, le nombre de plans par films s’accélère – et est quasiment proportionnel à la médiocrité des films. Conséquence : les plans longs sont de moins en moins nombreux. Et… de plus en plus court ! Trois secondes cela commence à être beaucoup trop long. Il se passe de plus en plus de choses à la fois dans les feuilletons : comparons Plus Belle La Vie (P.B.L.V. pour faire vite) à Le 16 à Kerbriant (1972). Paul Valéry écrivait : « L’homme s’enivre de dissipation : abus de vitesse, abus de lumière, abus de toxiques, de stupéfiants, d’excitants, abus de fréquences dans les impressions, abus de diversités, abus de résonances, abus de facilités, abus de merveilles. Toute vie actuelle est inséparable de ces abus (Variété, 1924). »

Il y a plus de cinquante ans, André Siegfried de son côté analysait « l’âge de la vitesse » dans Aspects du XXe siècle (Hachette, 1955). Il soulignait que la vitesse des bateaux avait été multipliée par cinq avec la vapeur remplaçant la voile. Que ne dirait-il quand aux progrès de la capacité de stockage et de calcul de nos ordinateurs ! Mais la vitesse peut être un vice : le « seul vice nouveau du XXe siècle » avait dit Paul Morand. « L’homme résistera-t-il en à l’accroissement formidable de puissance dont la science moderne l’a doté ou se détruira-t-il en le maniant ? Ou bien l’homme sera-t-il assez spirituel pour savoir se servir de sa force nouvelle ? », s’interrogeait encore Paul Morand (Apprendre à se reposer, 1937).

9782081228740.jpgElle nous fait bouger de plus en plus vite, ou surtout, elle nous fait croire que ce qui est bien c’est de bouger de plus et plus, et de plus en plus vite. En cherchant à aller de plus en plus vite, et à faire les choses de plus en rapidement, l’homme prend le risque de se perdre de vue lui-même. Goethe écrivait : « L’homme tel que nous le connaissons et dans la mesure où il utilise normalement le pouvoir de ses sens est l’instrument physique le plus précis qu’il y ait au monde. Le plus grand péril de la physique moderne est précisément d’avoir séparé l’homme de ses expériences en poursuivant la nature dans un domaine où celle-ci n’est plus perceptible que par nos instruments artificiels. »

Notre société malade de l’urgence

Nos enfants sont les enfants de l’urgence. Et tout simplement parce que nous-mêmes sommes fils et filles de l’urgence. Et ce sentiment d’urgence va avec la vitesse. Si c’est grave, et il n’y a pas d’urgence sans gravité, alors, il faut réagir tout de suite. De nos jours, explique la sociologue et psychologue Nicole Aubert, l’homme doit réagir aux événements « en temps réel ». Au moment même. Plus encore, même quand il « ne se passe rien », il est sommé d’être « branché », connecté avec le monde, au cas où il se passerait quelque chose. Une urgence par exemple. L’homme est mis en demeure de provoquer des micro-événements sans quoi il ne se sent pas vivre. Il s’ennuie. De ce fait, ce ne sont pas seulement les machines, c’est l’homme lui-même qui vit « à flux tendu ». La durée, qui suppose l’endurance, a été remplacée par la vitesse, qui répond à une supposée urgence. Mais cette vitesse n’a pas une valeur optimum, c’est l’accélération qui est requise. La bonne vitesse c’est la vitesse supérieure à celle d’hier. De même qu’un ordinateur performant ce n’est pas un ordinateur qui suffit à mes besoins c’est un ordinateur plus performant que les autres et en tout cas plus performant que ceux du trimestre dernier. Il y a dans ce culte de l’urgence et de la vitesse – ce n’est pas la même chose mais cela va ensemble – une certaine ivresse.

« L’expérience majeure de la modernité est celle de l’accélération » écrit Hartmut Rosa (Accélération. Une critique sociale du temps, La Découverte, 2010). Nous le savons et l’éprouvons chaque jour : dans la société moderne, « tout devient toujours plus rapide ». Or le temps a longtemps été négligé dans les analyses des sciences sociales sur la modernité au profit des processus de rationalisation ou d’individualisation. C’est pourtant le temps et son accélération qui, aux yeux de Hartmut Rosa, permet de comprendre la dynamique de la modernité. Pour ce faire, nous avons besoin d’une théorie de l’accélération sociale, susceptible de penser ensemble l’accélération technique (celle des transports, de la communication, etc.), tout comme l’accélération du changement social (des styles de vie, des structures familiales, des affiliations politiques et religieuses) et l’accélération du rythme de vie, qui se manifeste par une expérience de stress et de manque de temps. La modernité tardive, à partir des années 1970, connaît une formidable poussée d’accélération dans ces trois dimensions. Au point qu’elle en vient à menacer le projet même de la modernité : dissolution des attentes et des identités, sentiment d’impuissance, « détemporalisation » de l’histoire et de la vie, etc. L’instantanéisme tue la notion même de projet, fut-il moderne. « En utilisant l’instantanéité induite par les nouvelles technologies, la logique du Marché, avec ses exigences, a donc imposé sa temporalité propre, conduisant à l’avènement d’une urgence généralisée. » note Nicole Aubert (Le culte de l’urgence, Flammarion, 2004; L’individu hypermoderne, Eres, 2004).

paulmorand-lhommepresse.jpgHartmut Rosa montre que la désynchronisation des évolutions socio-économiques et la dissolution de l’action politique font peser une grave menace sur la possibilité même du progrès social. Déjà Marx et Engels affirmaient ainsi que le capitalisme contient intrinsèquement une tendance à « dissiper tout ce qui est stable et stagne ». Dans Accélération, Hartmut Rosa prend toute la mesure de cette analyse pour construire une véritable « critique sociale du temps susceptible de penser ensemble les transformations du temps, les changements sociaux et le devenir de l’individu et de son rapport au monde ».

L’ivresse de la vitesse fait même que la figure tutélaire de notre société est la personnalité border line, une personnalité qui recherche toujours l’extrême intensité dans chaque instant. Mais la contrepartie de cette recherche est la fragilité : la désillusion, le dégrisement douloureux, l’atonie, la désinscription dans une durée qui ne fait plus sens parce qu’elle n’a jamais été la durée d’un projet et que l’intensité ne peut suppléer à tout. C’est pourquoi on peut analyser certaines maladies de l’âme comme des réponses plus ou moins conscientes à une pression du temps social vécue comme excessive (Nicole Aubert, Le culte de l’urgence. La société malade du temps, Flammarion, 2003).

La dépression, une stratégie de ralentissement du temps ?

Ainsi la dépression est-elle en un sens une stratégie de ralentissement du temps. L’homme dépressif succède à l’homme pressé – celui-ci dans tous les sens du terme, pressé de faire les choses et pressé comme un citron. Le dépressif se donne du temps – et c’est sans doute cela aussi que Pierre Fédida désignait, paradoxalement, comme « les bienfaits de la dépression ». Bien évidemment cette solution n’est pas satisfaisante si elle perdure, car le dépressif mélancolique souffre d’un temps sans histoire personnelle possible, par sentiment de perte irrémédiable et de destruction de son estime de soi. La cassure de l’« élan personnel » du mélancolique lui interdit de produire sa temporalité propre. La dépression ou la griserie passagère, toujours à réactiver, du psychopathe border line, tels sont ainsi les deux effets du culte de l’urgence.

L’ensemble de notre société et de ses dirigeants est pris dans cette obsession d’une temporalité « en temps réel », c’est-à-dire d’un temps de l’action sans délai de transmission. Action sans médiation. C’est une fausse temporalité. C’est un instantanéisme ou encore un présentisme. Les plans d’urgence fleurissent, élaborées eux-mêmes dans l’urgence. Les lois d’urgence aussi : sur les Roms, sur les étrangers délinquants, sur le logement, sur des sujets aussi techniques que la suppression du tiers payant quand on refuse un médicament générique (Rousseau, reviens, ils ont oublié la grandeur de la Loi), etc. De là un « mouvementisme » (Pierre-André Taguieff), puisqu’il s’agit de toujours « coller » à un présent par définition changeant. Aussi, au culte de l’urgence doit succéder un réinvestissement du temps dans son épaisseur. Il est temps de réencastrer l’instant dans le temps du projet et de la maturation. « Il est temps qu’il soit temps » dit Paul Celan (Corona). Par principe, le temps est « ce qui nous manque ». C’est la condition humaine. « L’art a besoin de ce temps que je n’ai pas » dit Paul Valéry.

Résister à l’urgence

L’urgence ? Réagir dans l’urgence, c’est souvent la catastrophe. Au nom de l’urgence, c’est le titre d’un film d’Alain Dufau (1993) sur la construction, très vite et trop vite, des grands ensembles H.L.M. dans les années 50 à 70 (cf. les sites Voir et agir et Politis, Au nom de l’urgence). Au nom de l’urgence, ce pourrait aussi être le nom d’un reportage sur la folie de l’immigration décidée par le grand patronat et les gouvernements qui lui étaient et lui sont inféodés à partir de 1975. (cf. Hervé Juvin, « Immigration de peuplement » sur le site Realpolitik.tv). Immigration décidée pour fournir, très vite, de la main d’œuvre pas cher au patronat des trusts et pour tirer tous les salaires, y compris bien sûr ceux des Français, vers le bas.  Au nom de l’urgence, c’est la réaction de Sarkozy et de presque toute la classe politico-médiatique face à la répression rugbyllistique des agitations et rebellions (armées) en Libye par Mouammar Kadhafi. Réaction inconsidérée et épidermique. En urgence et à grande vitesse, c’est même ainsi que l’on décide de la construction ou non de lignes de train à grande vitesse, dites T.G.V.

Un nouveau dictionnaire des idées reçues de Flaubert dirait donc peut-être : « Urgence. Répondre à ». Répondre en urgence à la question du mal-logement par exemple. Avec… des logements d’urgence. Erreur. La bonne réponse est : « Résister à ». Il faut (il faudrait !) résister à l’urgence. Mais ce n’est pas si simple. La preuve : en tapant sur un célèbre moteur de recherche « résister » et « urgence », vous n’obtenez guère de réponses sur le thème « Il faut résister à l’urgence, au Diktat de l’urgence, et voici comment » mais beaucoup de réponses du type « Il est urgent de résister » ! Ce qui n’est pas du tout la même chose et est même le contraire. 0r s’il est parfois nécessaire de résister (à bien des choses d’ailleurs), il est plus nécessaire encore de comprendre à quoi l’on devrait résister, pourquoi on en est arrivé là, et comment résister de manière efficace – ce qui nécessite en général de prendre un peu de temps. Le contraire de réagir dans l’urgence.

Les techniques proliférantes nous imposent l’immédiateté. Difficile de répondre à Nicolas Gauthier que son courrier nous demandant pour jeudi au plus tard un papier sur l’urgence est arrivé trop tard, pour cause d’un accident de cheval au relais de poste. Dans le même temps, nous vivons de plus en plus vieux mais sommes de plus en plus angoissés par l’avenir, par le temps, et surtout par… la peur du manque de temps. Jacques André, professeur à l’Université Paris-Diderot, a appelé cela Les désordres du temps (P.U.F., 2010). L’immédiateté en est un des aspects, la frénésie de « ne pas perdre son temps » en est un autre aspect : elle amène à aller vite, à faire plein de choses en peu de temps, voire… en même temps, à rencontrer plein de nanas parce que le temps est compté, à être tout le temps « surbooké » sans guère produire de choses définitives ni même durables. Nicole Aubert écrit : « Pour les drogués de l’urgence, atteindre le but fixé, s’arrêter, c’est l’équivalent de la mort. On le voit très bien dans les séries télévisées qui ont actuellement le plus de succès : Urgences, 24 heures chrono… Elles mettent en évidence que si l’on cesse de foncer ne serait-ce qu’une seconde, quelqu’un va mourir. » Exemple : que restera-t-il de Sarkozy ? Le symbole d’un homme pressé, inefficace, et un peu dérisoire. Trois fois moins que Spinoza ou Alain de Benoist, qui n’ont pas fait de politique mais qui ont pris le temps d’une œuvre et d’une pensée.

Chercher la performance donc la vitesse est gage d’efficacité dans notre monde. Ce n’est pas strictement moderne. Napoléon, le dernier des Anciens, était comme cela. Mais le monde moderne tend à ériger cela – qui était l’exception – en modèle. Le rapport faussé au temps est une des formes du malaise de l’homme moderne. « Aujourd’hui, nous n’avons plus le temps d’incuber les événements et de les élever au statut d’événements psychiques  » note le psychanalyste Richard Gori. Nous nous laissons ballottés par le présent sans nous donner le temps de le digérer. Nous ne maîtrisons plus rien car toute notre énergie est dans la réaction à ce qui nous arrive. Le psychanalyste Winnicott note : « Pour pouvoir être et avoir le sentiment que l’on est, il faut que le faire-par-impulsion l’emporte sur le faire-par-réaction. » Il faudrait pour cela échapper à la pression, c’est-à-dire à l’urgence. Laurent Schmitt, professeur de psychiatrie, s’interroge, dans Du temps pour soi (Odile Jacob, 2010) sur notre faculté à suroccuper notre temps, fusse par des futilités. « Cette facilité à combler le moindre temps mort conduit tout droit à l’ennui et au mal-être. Voici un nouvel enjeu essentiel à notre qualité de vie. Le combat ne se limite plus à gagner du temps libre mais à reconnaître “ notre ”  temps, derrière les multiples occupations, celui en accord avec notre intimité et nos vraies aspirations. » En fait, ce que l’économiste américain Joseph Stiglitz appelle Le triomphe de la cupidité concerne aussi notre rapport au temps. Peter Sloterdijk remarque : « Notre nouveau rapport au temps peut s’appréhender comme “ existentialisme de la synchronisation ” et implique « l’égalité de tous devant le présent homogène de la terre. »

Ne pas vouloir « perdre son temps », ne pas discuter avec un inconnu, ne pas consacrer du temps à un gamin revêche, etc., à un certain degré, cela relève de l’égoïsme. De la volonté forcenée de ne pas « gaspiller son temps ». Se libérer de l’urgence, c’est aussi se libérer de cela.

Le culte de l’urgence est lié à celui de la transparence. Il s‘agit de réagir vite à une situation que l’on suppose claire, transparente, sans équivoque. Les deux maux se tiennent. Ils concourent tous deux à ce que Pierre Rosanvallon appelle « la myopie démocratique ». La logique du monde moderne, c’est de saturer à la fois l’espace et le temps. « Le progrès et la catastrophe sont l‘avers et le revers d’une même médaille. C’est un phénomène qui est masqué par la propagande du progrès », note Paul Virilio. La propagande du progrès est en d’autres termes le court-termisme, l’absence d’horizon. Face à cela, la fonction présidentielle, à laquelle nous pouvons penser hors de l’urgence – il reste plus de douze mois – devrait répondre aux besoins de long terme, de permanence des choix et des identités, à la sécurité de notre être personnel et collectif, on appelle cela la nation, ou plus simplement encore : le peuple, notre peuple. L’exercice de cette fonction devrait répondre aux besoins de durabilité de la France, notre pays, et de l’Europe, notre destin. Le moment viendra où il faudra s’en souvenir.

Pierre Le Vigan

• D’abord paru dans Flash, n° 62, 24 mars 2011, (quelques modifications et ajouts ont été introduits pour le présent texte).


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mardi, 01 mars 2011

L'économie de l'immigration

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L’économie de l’immigration

par Jean-Yves LE GALLOU

Il y a une « idéologie de l’immigration ». Celle-ci promeut le multiculturalisme et la « diversité », la culpabilité française et européenne et « l’antiracisme ». Selon une grille marxiste, « l’idéologie de l’immigration » est la superstructure intellectuelle de « l’économie de l’immigration » qui en est l’infrastructure. Selon une grille parétienne, « l’idéologie de l’immigration » est la « dérivation » théorique d’intérêts concrets bien réels (« les résidus » tout à fait matérialistes de ceux qui tirent avantage de l’immigration). Bref le discours des professionnels des bons sentiments sert de paravent à des intérêts sordides.

« L’économie de l’immigration », tel est le sujet traité par Jean-Yves Le Gallou, le 14 octobre 2010, à l’invitation du Cercle des catholiques pour les libertés économiques (C.L.E.), présidé par Michel de Poncins. L’auteur analyse d’abord la macro-économie de l’immigration et son impact sur la production, les salaires, les prestations sociales, la privatisation des profits et la collectivisation des pertes. Jean-Yves Le Gallou étudie ensuite la micro-économie de l’immigration et dévoile la multiplication des intérêts particuliers qui s’en nourrissent. Explications.

La logique d’une production moins chère

Dans l’univers du libre échange mondial et de la mobilité de tous les facteurs de production, les entreprises françaises et européennes sont poussées à un double comportement :

– la délocalisation à l’extérieur (« offshore ») de la production des biens et produits manufacturés et des services informatiques;

– la délocalisation à domicile par le recours à de la main d’œuvre immigrée pour les services non délocalisables : B.T.P., restauration et services à domicile notamment.

Cette logique a ses gagnants et ses perdants.

Parmi les gagnants, on trouve les entreprises qui diminuent leurs charges (1) et donc augmentent leurs marges. On trouve aussi les particuliers qui utilisent des services : riches particuliers recourant à du personnel de maison ou fréquentant des restaurants de luxe, pas toujours très regardants sur la régularité de leur main-d’œuvre de base; particuliers moins riches bénéficiant de services à la personne, notamment de soins à domicile, ou clients de « fast food ». Et bien sûr les immigrés eux-mêmes qui accèdent – au prix de leur déracinement – au confort d’un pays développé.

Perdants de l’immigration : salariés et chômeurs

Les perdants sont du côté des actifs et des salariés : depuis trente ans, la main-d’œuvre française est en concurrence avec la main-d’œuvre mondiale; il n’est pas surprenant que ses conditions de travail et de revenus se dégradent; et qu’un chômage structurel de masse se soit installé. Car il est inexact de dire que « les immigrés prendraient les emplois que les Français ne veulent pas faire »; dans une économie où il y a 10 % de chômeurs, tous les emplois sont susceptibles d’être pourvus, à condition que les salariés ne subissent pas la concurrence déloyale d’une main d’œuvre bon marché venue du monde entier (2).

Les perdants sont aussi du côté des contribuables car l’immigration privatise les bénéfices mais socialise les coûts.

Privatisation des bénéfices, socialisation des coûts

La main-d’œuvre immigrée est abondante (le monde entier en pourvoit !), son coût direct est donc moins cher que la main-d’œuvre autochtone; c’est encore plus vrai lorsqu’il s’agit d’une main-d’œuvre immigrée clandestine : car dans ce cas c’est alors une main-d’œuvre docile et à charges sociales réduites sinon nulles.

Mais la main-d’œuvre immigrée coûte cher à la collectivité : un résident au chômage ne produit plus de cotisations mais il bénéficie toujours de prestations; un résident étranger, même clandestin, bénéficie de prestations et dès qu’il est régularisé ces prestations se généralisent et s’étendent à ses ayants droits : prestations de santé, de famille, de logements. Séjourner en France, c’est aussi accéder à des biens collectifs qui ne sont pas indéfinis : réseaux de transports et d’assainissement, places dans les hôpitaux et les collèges. Selon le prix Nobel Maurice Allais, toute entrée de résident supplémentaire génère un coût d’équipement; ces investissements nécessaires représentent de l’ordre de 100 000 euros par tête, plus sans doute dans les grandes régions urbaines comme l’Île-de-France où les réseaux sont saturés (3). Un travailleur régularisé avec sa famille peut ainsi coûter de 200 000 à 300 000 euros.

La grande illusion des régularisations

Depuis trente ans, les gouvernements successifs, en France comme chez nos voisins européens, finissent toujours par régulariser les travailleurs en situation clandestine, soit massivement, soit au fil de l’eau. Cette politique a des conséquences désastreuses car toute régularisation engendre deux nouvelles vagues d’immigration :

– celle des ayants droits des personnes régularisés (au titre du regroupement familial et de l’immigration nuptiale);

– celle de nouveaux clandestins qui viennent remplacer dans leurs emplois les travailleurs régularisés qui sont devenus moins rentables (et qui accèdent à un plus vaste champ de prestations sociales ce qui rend le travail moins intéressant pour eux).

L’économie de l’immigration se nourrit donc elle-même. D’autant qu’une multitude de corporations et de clientèles vivent de l’immigration

L’économie de la demande d’asile

En 2009, 47 000 personnes – record européen – ont demandé (très souvent abusivement) l’asile politique en France. La situation est la suivante : un Africain ou un Turc ou un Tchétchène arrivant, le dimanche, en France, avec sa famille (avec un visa de tourisme), peut déposer une demande du statut de réfugié politique en touchant le territoire français; dès le lundi, il pourra solliciter un hébergement de la part de la préfecture la plus proche; et s’il ne l’obtient pas immédiatement, il pourra engager un référé administratif le mardi; au final, il sera logé dès le jeudi. Derrière ces règles qui coûtent 500 millions d’euros par an aux contribuables français, il y a beaucoup de bénéficiaires : les associations qui touchent les subventions pour l’aide qu’elles apportent aux demandeurs d’asile, les avocats qui trouvent des causes à défendre et les hôtels qui reçoivent des clients solvables… puisque c’est l’État qui paie.

Avocat de l’immigration : un métier profitable

Chaque année, 20 000 avocats supplémentaires sortent des facultés : la judiciarisation de la société et des affaires ne suffit pas à créer un marché suffisant pour les faire vivre; mais le développement de l’aide judiciaire et les contentieux de masse fournissent des débouchés précieux supplémentaires : à Paris, Versailles, Lille, Lyon et Marseille, près de la moitié du contentieux administratif relève du droit de l’immigration. Un contentieux d’autant plus important qu’il est à la fois administratif et judiciaire. D’autres avocats se sont spécialisés dans les actions « anti-racistes ».

Des dizaines de milliers de gens de robe vivent donc de l’immigration et militent pour une complexification croissante des lois au nom bien sûr de la défense des droits de l’homme; défense qui correspond à leurs intérêts bien compris. D’autres professions bénéficient du même effet d’aubaine : ainsi Le Monde notait récemment qu’en matière judiciaire, « les pauvres manquaient d’interprètes » (4).

L’économie associative

Des milliers d’associations maillent le territoire pour faciliter « l’intégration », « lutter contre l’exclusion » ou « combattre le racisme ». Là aussi, une multitude d’animateurs sociaux, de pédagogues et de sociologues trouvent des débouchés professionnels dans des structures subventionnées; structures d’autant plus généreuses que plus une action échoue, plus elle a de chances d’obtenir des crédits supplémentaires car loin d’être abandonnées les actions sans résultats obtiennent des rallonges budgétaires.

Il y a là au niveau local comme au niveau national un terreau d’intérêts.

Les médecins et l’immigration : les paradoxes du numerus clausus

À la différence des avocats, la profession de médecins a subi un numerus clausus sévère : les médecins sélectionnés en France ont donc tendance à se concentrer sur les taches les plus intéressantes ou les mieux rémunérés. Un marché parallèle se développe pour les autres taches : urgentistes des hôpitaux venant du Maghreb et d’Afrique noire souvent moins qualifiés et toujours moins payés. Dentistes venant de Roumanie ou d’autres pays de l’est.

Dans le même temps, certains patrons de services hospitaliers vont chercher des patients intéressants à l’étranger. Ils maintiennent ainsi la voilure de leur service. Situation pour le moins paradoxale : la médecine française importe à la fois des malades et des médecins. Il n’est pas sûr que le patient français et l’assuré qui finance la sécurité sociale soit le gagnant de ces étranges pratiques.

Les universités à la recherche d’effectifs

Faute de sélection, les universités françaises attirent de moins en moins les étudiants français qui préfèrent souvent les filières courtes ou les grandes écoles (y compris les plus « petites » qui se sont beaucoup développées). Présidents d’universités et syndicats d’enseignants ont donc cherché de nouveaux débouchés auprès des étudiants chinois ou africains de petit niveau (les meilleurs intégrant les grandes écoles françaises ou les universités anglo-saxonnes). Là encore on voit mal ce que les Français ont à gagner à un tel dispositif qui se borne à nourrir de petits intérêts. D’autant que le statut d’étudiant accordé sans grand contrôle d’assiduité et de sérieux (ce n’est pas l’intérêt des universités qui cherchent à faire du « chiffre ») est l’une des filières du travail clandestin.

Conclusions. L’intégration des immigrés est un échec.

L’immigration pose des problèmes de moins en moins solubles. Et pourtant l’immigration se poursuit imperturbablement. C’est qu’il y a derrière le mouvement migratoire, le puissant moteur d’une économie de grands et petits intérêts. C’est aussi pour cela que « l’antiracisme » est l’idéologie de l’oligarchie dominante (5).

Jean-Yves Le Gallou

Notes

1 : Lire en ligne sur Polémia, « Immigration : pourquoi le patronat en veut toujours plus ».

2 : Lire en ligne sur Polémia, « Maurice Allais et les causes du chômage français ».

3 : Lire en ligne sur Polémia, « Maurice Allais et le coût de l’immigration ».

4 : « Après un an de stage et trois ans de “ collaboration ”, Maître Virginie W., 32 ans, a vissé sa plaque en 2009, et partage ses locaux avec un confrère à M. L’aide juridictionnelle (A.J.) lui assure de 1 000 à 2 000 euros brut par mois, soit un gros tiers de ses revenus. “ L’A.J., c’est le fonds de roulement des avocats. Pour les jeunes mais pas seulement… Les anciens, y compris dans les grosses structures, sont de plus en plus nombreux à monter des permanences pour en bénéficier ”, témoigne-t-elle » (dans « Les barèmes dérisoires de l’aide juridictionnelle », Le Monde du 26 octobre 2010).

5 : Lire en ligne sur Polémia, « L’antiracisme : une arme au service de l’oligarchie dominante ».

• D’abord mise en ligne sur Polémia, le 27 octobre 2010.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=1805

jeudi, 24 février 2011

Klansmen, Irishmen, & Nativists

Klansmen, Irishmen, & Nativists:
The Origins of Racial Nationalism in America

Ex: http://www.counter-currents.com/

The heterogeneity of America’s European population has always posed a challenge to its national identity. Only late in the nineteenth century was this identity extended to European immigrants assimilated in its Anglo-Protestant values and, in the twentieth century, to Catholics, whose Church (the “Whore of Babylon”) had learned to accommodate the Protestant contours of American life (or what John Murray Cuddihy called its “civil religion”). From this ethnogenesis, the original Anglo-Protestant identity of the American people gradually evolved into a more inclusive European Christian identity, though one closely tied to its Anglo-Protestant antecedents.

Based on this heritage, racial nationalists today define America as a European nation and designate its anti-white elites as their principal enemy.

It was, though, but in fits and starts that American whites acquired an ethnonational identity. What’s often referred to as American nationalism—the expansionist slogans of Manifest Destiny, the ideology of Anglo-Saxonism, the gunboat diplomacy of the Progressives (McKinley, T. Roosevelt, Wilson)—was more a chauvinist statism legitimating territorial expansionism and land speculation than an ideological offshoot of the country’s racial-historical life forms. The primordial concerns of the American nation were thus only tangentially represented in these imperialist movements associated with the state’s expansion.

The first genuinely post-revolutionary expression of American ethnonationalism (i.e., “nationalism in its pristine sense”) began, accordingly, with the first wave of mass immigration, in the late 1830s and “the hungry Forties,” as Irish and South German Catholics reached American shores, affronting “Anglo-Americans” with their “otherness.” The “nativists” (native born, White, Protestant Americans) opposing the new immigrants rejected the crime, public drunkenness, pauperism the Irish brought, but above all the Catholicism of both groups, for “the Church of Rome” was an anathema to a liberal nation born of the Reformation and of the struggles against the Catholic empires of Spain and France.

The nativist response was nevertheless a nuanced one recognizing the distinctions that culturally separated Irishmen from Germans. The latter, who began to outnumber the Irish only in the late 1850s, tended to be farmers and artisans. That they settled inland, away from the older coastal settlements, and engaged in respectable occupations also mitigated nativist opposition, though nativists opposed the formation of German-speaking communities, beer-drinking forms of sociability, and the Germans’ political radicalism.

The Germans nevertheless seemed assimilable, which was not the case with the Irish. The first expression of American nativism was thus largely an anti-Irish movement, for the tribal solidarity of this unbourgeois people, their aggressive rejection of Protestant culture, their whiskey drinking and pre-modern behavior, and their anti-liberal sympathy with the slave states (which nativists resented because these states closed off land to white settlement) were an offense to the country’s Anglo-Protestant culture.

This anti-Irish sentiment became especially prominent once the famine ships, with their destitute cargoes, began arriving.

The Irish, though, offended not simply the Yankees’ religious and behavioral standards, their quick exploitation of the political system offended their republican convictions. Though one of the most afflicted of Europe’s nations, Erin’s exiles were also one of the most politically “advanced.” Not only had they a long history of secret societies (such as the Defenders, Whiteboys, Ribbonmen, etc.), which had waged an underground war against English landlords and Orangemen, in the 1820s, Daniel O’Connell’s Catholic Association, “the first mass political party in history,” taught the Irish how to exploit the new electoral forms of liberal parliamentary politics in order to throw off England’s Protestant ascendancy and its genocidal Penal Laws.

In America, the politically savvy Irish (led by their priests, saloon keepers, and eloquent rebels) challenged not just Yankee folkways, but the individualistic tenor of republican governance.

The terrible age of American ethnic politics begins with the Irish.

From the 1830s through to the late 1850s, nativist opposition to Catholic, specifically Irish, immigration took the form of intercommunal strife, the proliferation of anti-immigrant associations, and, then in 1854, the establishment of a national political party—the American Party (known as the “Know-Nothings”)—which, for a time, became a refuge for abolitionist and free-soil opponents of Southern slavery who had broken with the Whig party but not yet affiliated with the newly formed Republican party. (That is, this nativist party was partly the creation of those who now seek our destruction as a people.)

The Know Nothings held that Protestantism was an essential component of American identity; that Catholicism’s “autocratic” Pope and Church hierarchy were incompatible with republican self-rule; that Catholics had acquired undue political advantage; and that a longer, more thorough process of naturalization (Americanization) was necessary for the acquisition of citizenship. More fundamentally, it gave expression to the deep reservation which Anglo-American Protestants had about allowing their country to be overrun by Catholic immigrants.

Like most future manifestations of American racial nationalism (though they lacked a genuinely racial dimension), the Know Nothings were moved by a populist distrust of the state and the established political parties, which were seen as indifferent to the ethnocommunal identity of native whites.

Within but a year of its founding, the American Party succeeded in electing eight state governors, more than a hundred Congressmen, the mayors of Boston, Philadelphia, and Chicago, and thousands of local officials. Its future looked bright.

But the party fell almost as rapidly as it rose, having been swept up and then forced off the political stage by powerful sectional conflicts related to slavery and the preservation of the Union.

Its struggle for an Anglo-Protestant America in the 1850s nevertheless represented the first bloom of American nationalism in its blood-and-soil stage (somewhat earlier than other European nationalisms, which were still at the liberal political stage). As such, it resisted a political system privileging economics over community, opportunity over belief, and a liberal over a biocultural understanding of American life.

Though race was not an issue, religion, culture, and an endogamous sense of community were—issues that are preeminently ethnonationalist. Nativism became, as such, the foundation upon which the future defense of European life in America would be waged—for in however rudimentary and unfocused a way, it defended the American nation as an Anglo-Protestant community of descent, not a political entity based on an abstract ideological or creedal notion of nationality opened to all the world. (We Irish, supreme irony, have, as any roll of white nationalist ranks reveals, become the foremost exponent of this view today.)

The racial component of this biocultural definition of the nation did, though, soon come into its own—in the anti-Chinese movement that dominated California politics in the half century following the Gold Rush (1848).

As European immigrants, native Americans, and the first Chinese made their way to California in this period, so too did racial conflict—though conflict here would not be between natives and immigrants, but between Occidentals and Orientals, White against Yellow.

Standing together against the first Chinese arrivals—and to the swarming millions threatening to follow in their wake—native Americans and Irish Catholics discovered their common racial identity.

Almost from the start, they recognized the joint stake they had in opposing a people which worked at half the white man’s wage, retained their alien clothes, customs, and language, practiced a “heathen” religion, and created distinct, over-crowded, dirty, and often self-contained communities associated with vice and disease.

Comprising more than a fifth of the California labor force in the 1870s, these Chinese newcomers, with their low living standards and servile conditions, were seen as threatening not just the racial definition of the nation, but the American way of life—the prevailing standard for what it meant to be a free white man—and, ultimately, white civilization.

In such a situation, white solidarity was paramount—which meant that, in face of the Yellow Hordes, religious differences dividing Protestant natives and Catholic immigrants in the antebellum period had to be superseded.

Accused of cheapening labor and introducing foreign elements in the East, the Irish were now welcomed into California nativist ranks—as whites facing a common threat—and, accordingly, they came to play a leading role—perhaps the leading role—in spearheading the trade-union, political, and communal opposition to the Chinese.

The extent of white solidarity in the popular classes was such that it spurred numerous official and unofficial measures to restrict Chinese participation in the economy and in other realms of American life.

As early as the 1850s, local and state laws were passed to limit the type of jobs the Chinese could work, the land they could own, and the schools their children could attend, while white, especially Irish, workingmen not infrequently resorted to violence to drive them from certain trades and neighborhoods. In mining, logging, and construction, the Chinese were forced out entirely and in numerous small towns throughout California and the Northwest, Chinese communities were abandoned in face of angry white mobs.

Then, in the late 1870s, in a period of economic crisis, a Workingmen’s Party, led by an Irish demagogue, Denis Kearney, was formed in San Francisco.

Its principal slogan was “The Chinese must go.”

Supported by a mass network of “anti-coolie clubs” and trade unions, the party became the chief vehicle for the cause of Chinese exclusion.

The state organization of the two established national parties, the Democrats and the Republicans, each, for the sake of appeasing the pervasive anti-Chinese sentiment the Workingmen represented, were forced to support its exclusionist policies.

But more than transcending religious and political differences between closely related whites, the Chinese exclusion movement took aim at those large-scale corporate interests (primarily the railroads) responsible for importing Chinese contract labor and using it as leverage against white workers.

In frequent sand-lot demonstrations and in broadsheets, the movement, buttressed by large crowds of male workers, warned the monied men of Judge Lynch, targeting not just alien, but native threats to the nation’s bioculture.

Its slogan—“We want no slaves or aristocrats”—was an “egalitarian” affirmation of the existing racial hierarchy, and of the right of white men to the ownership of the land their people had conquered and created.

The movement’s achievements were momentous. For the first time in modern history, national legislation (to supplant the less effective immigration law of 1790) was passed to prevent non-whites from entering the United States and preventing those already within its borders from setting down roots.

White workers, supported by their trade unions, workingmen associations, and other organized expressions of white power, succeeded in frustrating capitalist and official efforts to change the country’s demographic character. White racial solidarity, at this stage, triumphed over those differences that stemmed from the religious wars of the Reformation.

Racially consciousness, populist, and at times anti-capitalist, the anti-Chinese movement of the 1870s (whose spirit, incidentally, lived on in the national-socialist novels of Jack London) succeeded in preserving the American West as a white Lebens-raum. As I see it (and I see it from both from an Irish and American perspective), it represents the single greatest movement of White America

The third great formative influence affecting the shape of American racial nationalism—though a step back from the anti-Chinese movement—came during the First World War.

The Ku Klux Klan, which had emerged after Appomattox to defend Southern whites from Negro aggression and the Yankee military occupation, was re-organized in 1915 to address certain changes in American life.

Like the European fascist movements of the interwar period, this “Second Klan” constituted a mass populist reaction to the war’s radical cultural/social dislocations.

The war had imbued the central government with unprecedented powers, enabling it to encroach on local communities in ways previously unknown; the recently founded Federal Reserve, in charge of the money supply, and the growing influence of Wall Street and the great corporations assumed an influence in national life that seemed to come at the expense of independent entrepreneurs and “the little men.” At the same time, the war effort assaulted the existing racial, familial, and moral hierarchies.

Blacks in this period acquired a foothold in northern industries and discharged Negro soldiers, “after having seen Paris,” were no longer willing to tolerate their caste status. The year 1919 was accordingly one of unprecedented racial violence, as Negroes challenging the existing system of race relations set off bloody riots in 26 urban centers.

In the same period, the middle-class family came under attack. Suffragettes carried the day with the 19th Amendment, a “new women,” promoted by advertisers and by Hollywood, questioned conventional “gender” relations, divorce rates suddenly shot up, and children were increasingly exposed to anti-traditionalist influences.

Finally, there was the specter of Bolshevism, which appealed to the unassimilated communities of recently arrived Eastern and Southern European immigrants (only 10 percent of the CPUSA membership could speak English by the mid-1920s) and assumed a menacing form in the great industrial conflicts that swept up more than a fifth of the national workforce.

On every front, then, it seemed as if small-town, rural, and middle-class White America was in retreat.

But not before making a last—and, for a generation, successful—stand in its defense, for within a decade of its founding, the Klan had rallied 5 million members to its ranks, penetrating local and national power-structures as few other anti-liberal movements in US history.

Comprised of white, native-born, anti-immigrant, anti-Catholic, and anti-Jewish elements, particularly in the South and the Midwest, this “Second Klan” saw itself as an “army of Protestant Americans.” As such, it sought to defend “pure Americanism, old-time religion, and conventional Protestant morality”—in the process reviving those religious issues that had earlier divided whites along sectarian lines (like in the 1850s), yet at the same time attempting to preserve the hegemony of Anglo-Protestants against the forces seeking to subvert the nation’s historic ethnic core.

To the degree the Klan was more sectarian than racial, favoring the conformist, materialist, and philistine elements in American life, it was a step back from the white consciousness of the anti-Chinese movement. (A similar phenomenon occurred after the Second World War among recently assimilated, often Catholic, immigrants, whose support for Joseph McCarthy was part of a more general effort to demonstrate that the “Americanism” of the “old immigrants,” largely Irish and German, was superior to that of the established but liberal and cosmopolitan Anglo-Protestant elite).

The Klan (like McCarthyism) was nevertheless not entirely the “reactionary” movement that academic historians make of it, for like its European counterpart, it was both traditionalist and populist, favoring measures that were anti-liberal, anti-cosmopolitan, and anti-egalitarian in spirit but by no means regressive.

In this capacity, it forced the government to close the border to immigration, it beat back the black assault on white hegemony, it let the wheeler-dealers in Washington and New York know that their “progressive policies” would not go unchallenged in the Heartland, and it acted as a moral bulwark against the permissive forces of Hollywood and Madison Avenue.

Above all, it upheld a racial standard for American existence.

Only in the late 1920s, after successfully preserving many traditional areas of American life that might otherwise had succumbed to the race-mixing modernism of the postwar “Jazz Age” did the movement finally subside in face of the economic breakdown of the 1930s.

* * *

The history of American racial nationalism, as exemplified by the Second Klan, the Chinese exclusion movement, and the early nativists, is a history whose legacy has, in the last half century, been squandered and suppressed by the elites now controlling American destinies.

Yet this is the legacy that the heirs of European-America today, if they are to survive, need to reclaim.

For this history confirms them in their belief that the popular classes in America have always rejected the creedal definition of the nation; that they refused to allow their society and territory to be overrun by non-whites; and that divisive sectarian issues (between Protestants and Catholics, leftists and rightists, modernists and traditionalists, etc.) served only the interest of their enemies.

Most of all, this heritage of American ethnonationalism calls on whites today, in this era of their dispossession, to defend the racial-cultural-civilizational “nation” to which they once belonged and which, if regained, might again distinguish them from the world’s less favored races.

mardi, 22 février 2011

Multiculturalism is Dead - Where Do We Bury the Body?

Multiculturalism is Dead – Where Do We Bury the Body?

By Jim GOAD

Ex: http://takimag.com/

Suicide.jpgI’ll never forget a painting I saw at a West Berlin youth hostel in 1985. The background depicted bombed-out ruins, presumably Dresden after the Allied firestorm. In the foreground were two women, their backs to us as they faced the charred, blown-out buildings. One woman was starting to lift her arm in a Sieg Heil salute, while the other rushed to grab her arm and stop her.

What a weird image it was, mixing national pride with national defeat and national self-loathing.

After World War II ended, no nation on Earth has been force-fed as many Guilt Sandwiches as the Germans, despite the fact that they’d lost seven to nine million of their own Volk in that conflict. One never hears about “the nine million.” It’s nearly verboten to even mention them.

When I saw that painting in 1985, Germany had already endured four decades of post-WWII shaming. Despite all that, I knew that sooner or later, that one lady would tire of holding down the other lady’s arm.

Sixty-five years after World War II’s end, Germany is finally becoming OK with being German again. On October 16 while addressing her Christian Democratic Union party, German Chancellor Angela Merkel said:

In Frankfurt am Main, two out of three children under the age of five have an immigrant background.…This multicultural approach, saying that we simply live side by side and are happy about each other, this approach has failed, utterly failed.

Loud applause greeted that last sentence.

For five years running, the stout, doughy Merkel has been Nummer Eins on Forbes magazine’s list of “The World’s Most Powerful Women,” so her statement is no small potatoes. But only a month earlier, Merkel was telling Germans that they should get used to seeing more mosques in their country. She was also condemning Thilo Sarrazin’s “absurd, insane opinions” as expressed in his shockingly popular book Germany Abolishes Itself.

It’s unclear why Merkel has suddenly shifted her ample hips rightward. She could be responding to recent polls showing that six in ten Germans would like to see Islam restricted, three in ten say they feel their country is “overrun by foreigners,” seventeen percent say that Jews have an undue influence over German affairs [oops!], and thirteen percent say they’d welcome a new Führer [now hold it right there!].

There go those pesky Germans again, refusing to hate themselves. How dare a German say anything besides “I’m sorry” for the next thousand years?

I don’t see the upside to our newer, more multicultural America. The only thing we share is the currency, and maybe that was the point all along.

Everyone expected the Germans to get an attitude sooner or later—after all, they’re the Germans. What seems more troubling, at least to the sworn enemies of All Things European, is that all of Europe seems to be getting the same attitude simultaneously.

What one might refer to as indigenous Europeans—you know, the palefaces, the Ice People, the Ghost Men, the Evil Aryans, the Abominable Snowmen—are beginning to chafe at the iron rainbow to which they’ve been yoked since World War II. Geert Wilders has blossomed into a political force solely by promising to protect Dutch culture from Islamofascism. An anti-immigration party just placed twenty anti-immigration asses into the Swedish Parliament’s seats. France is goin’ wild banning burqas and sending the Roma packing. The Swiss have flipped the bird at minarets. Putin’s brand of post-Soviet Russian nationalism is insanely popular, at least among insane Russians.

Even in the self-loathing, culturally obsequious, crushed-and-bleeding former empire that is the UK, comments in response to Merkel’s proclamation were lopsidedly in favor of what she said. Most of the anonymous online whisperers, presumably British nationals, agreed that multiculturalism was a colossal failure in their country as well.

Reading the comments, I saw parallels between Europe’s brand of “multiculturalism” and the American product. Both hither and yon, there’s anger about racial job quotas, oppressive speech codes, and double standards regarding who’s allowed to show ethnic pride.

What’s important is the way multikulti has unfolded and where. You don’t see such sensitivity training being forced upon anyone in Africa, Asia, the Middle East, or South America. You don’t hear China, Japan, or Israel being lectured to swing open their doors to foreigners. Almost exclusively, multiculturalism is a psychological marketing program designed for majority-white countries. Often, it is sold with the idea that whites are paying a historic debt, are reaping what they’ve sown, that what goes around comes around, that the wheel has turned full-circle, the chickens are coming home to roost, and that it’s time to pay the swarthy piper his due.

Country by country, continent by continent, there’s a sense that the newer, darker arrivals are receiving preferential treatment over those who’ve been there for generations. In the UK, it’s called “Positive Discrimination.” In America, it’s called “affirmative action” and “amnesty.” And across every border where whites are a majority, there’s a creeping sense that politicians don’t give a fuck about how they feel. They never asked for these new waves of immigrants, and they had no choice in this odd social-engineering experiment that’s demolishing whatever they used to share as a common culture.

Suddenly, this doesn’t seem so much like a celebration of all cultures as it does punishment of a specific culture. And that doesn’t sound like such a swell recipe for having everyone get along.

We’ll be continually reminded that European satellite nations such as Canada, the USA, and Australia were settled atop indigenous skulls, so the land-grabbing descendants of those race-murderers have no right to whine about being gradually wiped out themselves by newcomers.

Once again, for Christ’s sake, whether he’s dead or alive: Two wrongs don’t make a right. If colonialism was wrong then, it’s wrong now. Multiculturalism is merely colonialism with a prettier name. I realize and concede the fact that it awards us with a dazzling array of ethnic restaurants unparalleled in their tastiness.

Under multiculturalism, we have a wider selection of food…and no one talks to anyone anymore. Many of us now speak different languages and wouldn’t even know how to talk to one another. Rather than erasing borders, multiculturalism has merely created new borders within borders. Rather than destroying nationalism, it creates mini-nations within nations.

If we’re going to push multiculturalism’s glories, shouldn’t we point out where has it worked in the past? If diversity is a strength, why did stretched-too-thin empires such as ancient Rome and the Soviet Union eventually fall from the weight of their own diversity?

Stop calling me a racist and shoot some believable answers at me. I really want to hear them.

As always, the “chattering classes” are working out their postcolonial guilt complexes at the lower classes’ expense. Either they’ve known what they were doing all along or they haven’t, and I’m not sure which is worse.

It’s dangerous to ignore the fact that all the technology in the world, the ceaseless multicultural brainwashing that’s been laser-beamed into our eyeballs over the past 65 years, has not eradicated the basic human tendency to be tribal. If they didn’t fully murder such instincts in the Germans—and God fucking knows they tried hard with the Germans—maybe such instincts can’t be killed.

Yes, I realize we’re all human. If that’s your point, you’ve already made it—and, I might add, at a tremendous expense. What you fail to realize is that humans tend to be tribal. And if you get too many tribes, you don’t have a nation anymore.

I guess we should celebrate the fact that even though no one speaks to one another anymore, at least the people who aren’t speaking to one another are more “multicultural” than they used to be back when people actually spoke to one another.

What kind of newly enriched and suddenly empowered American culture do I see when I drive on the highway near my house? I see Wal-Mart, Chili’s, Motel 6, Wendy’s, and Home Depot. It could be Indianapolis. It could be Omaha. It could be Seattle. It could be anywhere in America. It happens to be Stone Mountain, GA, but you’d have no idea you were even in the South. In 2010, the only cultural landscape we share consists of familiar corporate logos. There’s no local flavor, no sense of indigenous culture. Things don’t seem richer, livelier, and more colorful; they’re empty, listless, and dead.

At least that’s how it feels to me. I don’t feel as if there’s any glue, cohesion, or sense of belonging in this society anymore. I’m feeling the anomie something awful. I don’t see the upside to our newer, more multicultural America. The only thing we share is the currency, and maybe that was the point all along.

Multiculturalism has failed, but it has only begun to fail. Now what? After constant states of flux, our society now seems fluxed-up beyond repair. How do we sort out the mess while avoiding more Trails of Tears?

Multiculturalism is dead, sure, but what do we do with the body? I’ve yet to hear a good burial plan, and I fear we may need one.

And what makes me most nervous is that I’m not even sure who “we” are.

dimanche, 20 février 2011

Kein Kulturrelativismus!

 

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Kein Kulturrelativismus!

Götz KUBITSCHEK - http://www.sezession.de/

In der FAZ von heute warnt die Soziologin Necla Kelek zwei Zeitungsspalten lang vor dem Kulturrelativismus der Justizministerin Leutheusser-Schnarrenberger. Sie biedere sich den Muslimverbänden auf doppelte Weise an:

Zum einen wiederhole sie den alten Zopf, daß alle Religionen dieselben universellen Prinzipien verträten, und zwar ungeachtet ihrer institutionellen und somit geschichtlichen Entwicklung. Leutheusser-Schnarrenberger ignoriere dadurch etwa die Tatsache, daß der Islam bisher nirgendwo bereit sei, Religion und Politik zu trennen: Die Politik sei selbst nach gemäßigter islamischer Auffassung weiterhin den Glaubenssätzen untergeordnet. Das Christentum hingegen habe im Vergleich dazu seine Säkularisierung längst hinter sich.

Der Kulturrelativismus werde, so Kelek, noch deutlicher, wo die Justizministerin den Eindruck vermittle, „Grundgesetz und Scharia seinen nur unterschiedliche Möglichkeiten, Recht zu sprechen“ (wobei Leutheusser-Schnarrenberger das „vorurteilsbeladene“ Wort Scharia konsequent vermeide). Es gibt da also keine Wertung, keine Ablehnung einer den Deutschen wesensfremden und ihrem geschichtlichen Weg nicht angemessenen Religion und religiösen Praxis und Rechtssprechung: Stattdessen Relativierung als Ausdruck einer  — Kapitulation vor der Macht des Faktischen? Oder als Ausfluß einer tiefen inneren Ablehnung des Eigenen, des So-Seins? Einer Hoffnung auf Befreiung vom Wir?

Joschka Fischer hat solches in seinem Buch Risiko Deutschland ja schon vor zehn Jahren programmatisch auf den Punkt gebracht: Deutschland müsse von außen eingehegt und von innen durch Zustrom heterogenisiert, quasi „verdünnt“ werden. Leutheusser-Schnarrenbergers Kulturrelativismus ist – nach der bereits erfolgten Bevölkerungsheterogenisierung – ein Meilenstein auf dem Weg einer Rechts- und Institutionenheterogenisierung.

Das ist ein Angriff auf so ziemlich das letzte, was noch „Mark in den Knochen“ hat: Wo wir nämlich der Willens- und Schicksalsgemeinschaft schon seit langem entbehren, haben wir doch noch eine Rechtsgemeinschaft. Das ist eine Schwundstufe zwar im Vergleich zu dem, was einmal war, aber es ist viel, wenn man sich die Alternbativen ausmalte: uns nicht gemäßes Recht.

Im Zusammenhang mit Keleks Artikel in der heutigen FAZ sei auf das Themenheft „Islam“ der Sezession verwiesen, es sollte heute und morgen bei den Abonnenten eintreffen. Von Kulturrelativismus findet sich darin nicht viel, einiges aber vom Selbstbewußtsein, mit dem man der ebenso religiös wie institutionell dämmernden Überfremdung entgegentreten kann.

Den Inhalt des Heftes kann man hier einsehen.

samedi, 12 février 2011

De multiculturele maatschappij is dood verklaard, maar de monoculturele maatschappij was dat al. Wat nu?

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De doctrine van staatsgeleid multiculturalisme (...) heeft gefaald een visie

uit te stralen waardoor jonge moslims bij de samenleving willen horen.

David Cameron, Brits premier, februari 2011

We dachten dat we gewoon naast elkaar konden wonen, maar dat blijkt niet zo. Het opzet van Multikulti is mislukt, volledig mislukt.

Angela Merkel, Duits bondskanselier, oktober 2010

Na de mislukking, de vragen

De multiculturele maatschappij is dood verklaard, maar de monoculturele
maatschappij was dat al. Wat nu?

Analyse Bart Haeck

Na Angela Merkel en Yves Leterme zegt nu ook de Britse regeringsleider David
Cameron dat de multiculturele samenleving, waarin culturen in harmonie naast
elkaar samen- leven, mislukt is. Maar wat in de plaats moet komen is helaas
niet zo duidelijk.

Het is nochtans een van de gouden communicatieregels voor politici: zegt
nooit dat er een probleem is als je er geen oplossing voor hebt. En als je
toegeeft dat iets is mislukt, kom dan meteen met de remedie. Net daarom is
het zo opvallend dat na de uitspraken van de Duitse bondskanselier Angela
Merkel, daarin bijgetreden door ontslagnemend premier Yves Leterme, ook de
Britse eerste minister David Cameron de multiculturele samenleving in zijn
land als mislukt verklaart.

Maar wat na de mislukking moet gebeuren, is een stuk onduidelijker. Iedereen
is het er over eens dat Europa nooit meer monocultureel wordt. 'De
multiculturele samenleving is niet mislukt, ze is niet gelukt. Ze is er',
twitterde Vlaams Parlementslid Sven Gatz (Open VLD) gisteren.

Maar wat nu? David Cameron pleit voor meer respect voor westerse waarden,
maar die staan al grotendeels in de grondwetten ingeschreven. De vraag is
hoe je dat respect efficiënter afdwingt. Cameron wil dat doen via 'gespierd
liberalisme', maar ook dat blijft tot nader order vaag. Ook Merkel legde nog
niet uit hoe ze wil dat allochtonen meer respect tonen voor de Duitse
cultuur en waarden.

Het nieuwe aan de doodverklaring van 'Multikulti' is daarom vooral dat het
debat open is verklaard, niet dat er een nieuw beleid klaarstaat.

En dat debat gaat alle richtingen uit. Het Vlaams Belang claimt dat het
eindelijk gelijk krijgt. In de linkse hoek zegt de Gentse professor Jan
Blommaert dat het multiculturele beleid mislukte omdat het te discriminerend
was. Rik Pinxten, die zichzelf omschrijft als een linkse humanist, hekelt
dat Cameron en Merkel het probleem 'opgelost beschouwen door de minst
weerbare groep als de oorzaak van alle ellende van de meest welvarende groep
aan te wijzen'.

Grootsteden

De sp.a weigert mee te stappen in een wij-zij-debat. Open VLD zegt dat we af
moeten van het doelgroepenbeleid, maar strakker individueel gedrag moeten
opvolgen. Volgens de liberalen ziet 'rechts' de allochtoon als iemand die
nooit een echte Vlaming zal worden, en ziet 'links' hem als onmondig.

Her en der duiken suggesties op over wie iets kan doen. Zo schreef Walter
Pauli in De Morgen dat België een nieuwe Paula D'Hondt (koninklijk
commissaris voor het Migrantenbeleid van 1989 tot 1993) kan gebruiken. Een
ander voorstel is de grootsteden nauwer te betrekken in het migratiebeleid,
omdat ze de complexiteit ervan in alle details dagelijks ondervinden.

Mevrouw Merkel heeft gelijk, in die zin dat het integratiebeleid niet altijd
de heilzame effecten heeft opgeleverd die men ervan verwachtte.

Yves Leterme, Belgisch premier, oktober 2010
© 2011 Mediafin
Artikelinformatie
Datum publicatie: 09 februari 2011
Bron: De Tijd

mardi, 08 février 2011

Michel Drac: entretien avec E&R-Bretagne

Michel Drac, entretien avec E&R Bretagne

 Ex: http://www.scriptoblog.com/

Les ouvrages du Retour Aux Sources font la part belle aux méthodes d’organisation et d'action  pensées par la gauche radicale (TAZ d’Hakim Bey, théorie des multitudes de Négri, éco-villages, …).

drac3.gifCroyez-vous la droite anti-libérale incapable de produire des idées pertinentes et des outils opérationnels adaptés à notre époque en crise ?

La droite anti-libérale a de toute évidence un problème pour se penser en rupture avec le Système. Ceci peut paraître curieux, dans la mesure où elle est objectivement plus étrangère au Système que n’importe quelle autre tendance politique. Mais au fond, c’est logique : pour se penser en rupture avec le Système, il faudrait que la droite anti-libérale conceptualise une rupture au sein du concept général de « droite », car une partie de la « droite » est dans le Système. Or, la droite anti-libérale, prisonnière de l’illusion d’un continuum de la « droite », ne parvient pas à penser cette rupture.

Ici, il faut bien dire que les logiques de classe ont tendance à prendre le pas sur les logiques purement politiques : il y a toujours un moment où le bon bourgeois anti-libéral est renvoyé à ses contradictions : comment être un bourgeois anti-libéral, aujourd’hui ?

Bref, je ne crois pas que la droite anti-libérale soit incapable de produire des idées pertinentes. Je constate en revanche qu’elle a du mal à les concrétiser, et même à les amener au stade du programme, du plan d’action. La droite anti-libérale est une sensibilité qui ne peut pas s’organiser.

 

Penser restaurer le système, l'aider à s'auto-corriger ou lutter pour le réformer (comme le font les réactionnaires, par exemple) n'aura pour résultat que de retarder la fin du Cycle et le début du suivant, selon vous. Quel peut donc être le rôle à jouer et la voie à suivre par des hommes différenciés en cette fin de Kali-Yuga? Cultiver une conscience politique propre à la formation d'une élite capable d'encadrer une (hypothétique et future) révolte des masses? Montrer l'exemple en se plaçant en dehors du jeu (retraite physique, élévation individuelle)? Ou combiner les deux?

L’économie occidentale contemporaine n’est pas réformable. C’est une énorme machine hypersophistiquée, une bonne partie des pièces s’est mise à fonctionner sans souci de l’ensemble, on a perdu le cahier de maintenance, et pour tout arranger, le pilote de machine est sourd, fou et ivre mort. La seule chose à faire, c’est d’attendre que le moteur explose, en se protégeant autant que possible contre les projections ! La priorité pour des hommes différenciés, comme vous dites, c’est de se préparer à se sauver eux-mêmes, alors que nous allons vers une période très, très dure.

Au demeurant, je pense que ce travail, s’il est conduit à termes, portera des fruits au-delà de son objectif immédiat. Au fond, si nous nous organisons pour nous en tirer le mieux possible, nous produisons simultanément et spontanément un modèle que d’autres voudront imiter. Paradoxalement, penser un égoïsme collectif, dans le contexte actuel, c’est aussi une manière d’aider tous ceux qui ne peuvent plus penser que l’égoïsme individuel. Plus que la noblesse des intentions, il faut juger l’efficacité concrète, et sous cet angle, la démarche consistant à structurer une contre-société me paraît aujourd’hui la plus porteuse.

Le narrateur de Vendetta explique ses actes (des assassinats, ndlr) à mots (ironiquement) choisis : ceux du champs-lexical managérial (« expérience passionnante et vie pleine de sens », etc.).

Penser les médiations nécessaires à une révolution, avec les concepts du système, résonne comme un aveu d'incapacité à produire du sens à l’extérieur de la matrice. Sens que le dernier opus du Retour au Sources (G5G – La Guerre de Cinquième génération) se propose, lui, de recréer. Pouvez-vous nous en dire plus?

Vous avez très bien saisi l’esprit des deux livres. Vendetta est une description de ce que l’on peut redouter, si la démarche proposé dans G5G est empêchée.

Il ne faut pas perdre de vue que les révoltés structurent toujours leur révolte avec, à la base, les concepts, les catégories du système qu’ils combattent. C’est pourquoi le parti communiste soviétique avait repris une partie des « techniques de gouvernement » propres à l’Eglise orthodoxe. C’est pourquoi le cérémonial napoléonien avait récupéré une partie des us et coutumes de la société de cour à la française. Etc.

Vendetta a été écrit pour expliquer, en gros : le Hitler, le Staline, le Mao de demain sont dans les tuyaux, et c’est la « démocratie libérale » contemporaine qui est en train de les incuber. Elle les incube d’une part parce que son dérèglement finit par rendre la vie impossible aux gens, ce qui va les pousser à la révolte ; et d’autre part parce qu’elle leur apporte sur un plateau les ingrédients de la violence révolutionnaire future : primat de la jouissance, de l’instantanéité, réduction de l’expérience humaine à l’individualité, compensée par un fonctionnement en réseau fluide.

On commence d’ailleurs à voir poindre cette nouvelle violence politique. Cette semaine (NB : début janvier 2011), nous avons eu une tuerie aux USA, avec un type qui a ouvert le feu en aveugle, lors d’un rassemblement politique. C’est là une pulsion de destruction (et d’autodestruction) qui ne s’organise pas, ou alors seulement de manière informelle, en réseau, et qui ne poursuit aucun autre objectif que la satisfaction de ceux qui s’y livrent. C’est ce vers quoi nous allons : la dictature par l’anarchie, l’extrême violence incontrôlable servant de prétexte à l’encadrement paranoïaque, partout, tout le temps.

G5G, à l’inverse, consiste à dire : dépêchons-nous d’offrir une issue, une voie vers le dehors de ce Système devenu fou, et qui nous rend fous. G5G, c’est le seul antidote à Vendetta, si vous voulez.

Dans De la souveraineté, vous expliquez que le mondialisme néolibéral se caractérise par l'absence d'idéologie originelle, combinée à une pathologie narcissique et au profit comme finalité - ce tout menant, selon vous, à la dictature du matérialisme bourgeois (fortification de l'élite du capital et asservissement de la masse).

Vous y opposez une posture européenne et traditionnelle : celle de la soumission du corps à la force, et de la force à l'esprit. Cette posture est-elle consubstantielle, comme mentionné par ailleurs, d’un certain élitisme et d’une purification éthique (mais pas ethnique) inévitable?

Dans De la souveraineté, j’ai essayé de faire comprendre rapidement quelque chose à mes lecteurs, tout en sachant que c’est quelque chose qu’on ne peut faire comprendre rapidement qu’au prix d’un certain simplisme. Ce quelque chose, c’est : le Système dans lequel nous vivons est une idéologie, à l’intérieur de laquelle nous habitons, et si nous avons l’impression qu’il n’y a pas d’idéologie, c’est parce que nous sommes dedans. L’absence d’idéologie originelle perçue par nous à la racine du Système provient uniquement du fait que nous confondons notre habitation au monde avec le rapport spontané, naturel, immédiat, de l’homme au monde. C’est la différence entre notre totalitarisme et les défunts modèles soviétiques et nazis : chez Goebbels, chez Souslov, tout le monde savait qu’il existait une idéologie ; c’était visible, revendiqué, même. Chez nous, cela reste caché. A aucun moment, le capitalisme et le consumérisme contemporain ne se donnent explicitement pour des constructions idéologiques. Le néolibéralisme lui-même se vit comme une simple description du réel. Quand un économiste néolibéral confond profit comptable et richesse, il ne sait pas qu’il opère un choix idéologique ; dans son esprit, c’est pareil, forcément pareil.

Ce qui permet, à mon avis, de prendre conscience du caractère idéologique du mondialisme néolibéral, c’est le rappel tranché, brutal, des alternatives possibles. On ne se sait enfermé dans l’idéologie que quand on en voit le dehors. C’est pourquoi j’ai rappelé qu’il avait existé, et qu’il existait encore, des mondes où l’impératif consumériste en contrepoint de l’impératif productiviste aurait été à peu près complètement dénué de sens – des mondes où le corps était là pour construire la force, et la force nécessaire pour préserver l’esprit. Des mondes, en somme, où l’être se réalise en réalisant sa nature, et non en violant la nature autour de lui. Ce rappel permet de faire comprendre en quoi le mondialisme néolibéral est idéologique : quand on voit le dehors, on comprend qu’on est à l’intérieur de quelque chose, d’une construction, qui n’est pas tout le monde, seulement un certain rapport au monde.

Quant à la question de l’élitisme, à la nécessité d’une forme de purification, il ne faut pas en faire un impératif figé, une sorte d’affirmation par hypothèse, que je donnerais là, au nom de je ne sais quelle autorité imaginaire. Il s’agit surtout dans mon esprit de rendre pensable une alternative, donc de rendre possible l’énonciation du négatif. Que ce négatif soit énoncé à partir d’une alternative élitiste ou non-élitiste, en fait, peu m’importe : à mes yeux, l’essentiel, c’est qu’il soit à nouveau énoncé. C’est la dynamique collective qui doit définir l’alternative au nom de laquelle le négatif est énoncé.

Sous diverses formes (action violente, retraite armée), l’engagement physique tient une place de choix dans les ouvrages du Retour Aux Sources.

Si le Grand Jihad (lutte intérieure contre ses mauvais penchants) doit précéder le Petit Jihad (lutte physique), pourquoi choisir de mettre plus en lumière l’action de révolte – au détriment du cheminement intérieur et individuel qui y mène ?

Vous trouvez que l’engagement physique tient une place de choix ? Pour l’instant, ce n’est que du papier… Plus tard, on verra de quoi il retourne, quand on passera à la pratique.

On sait, grâce à Norbert Elias notamment, que l’interdiction de la violence conduit à un auto-contrôle qui s’étend inexorablement à tous les domaines de la moralité (autocensure,…).

Rejoignez-vous cette idée que, pour redevenir humain, il faut d’abord redevenir barbare ?

Je pourrais vous répondre que les barbares sont généralement contraints à un très fort autocontrôle, puisque leur barbarie peut à tout moment se manifester entre eux. En ce sens, on pourrait tout aussi bien retourner le propos, et dire que pour nous libérer de l’obligation de l’auto-contrôle, il faut au contraire nous re-civiliser.

C’est la Loi qui libère. L’auto-contrôle, l’auto-censure contemporains trouvent leur source dans la disparition de la Loi. On ne sait plus ce qu’on a le droit de dire, de prôner. On ne sait plus où est l’orthodoxie. La Loi existe peut-être, mais elle est fixée si haute, si loin, qu’on ne peut plus la lire, tout au plus la deviner.

Ce que nous devons faire, c’est nous organiser entre nous pour définir une Cité à nous, distincte de la fausse cité définie par le Système. Et dans notre Cité à nous, nous fixerons notre Loi à nous. Et tout le monde pourra la lire, et tout le monde saura ce qu’on peut dire ou ne pas dire, et pourquoi. Alors nous serons libres. Il ne s’agit donc pas d’être barbares : il s’agit d’avoir une ville à nous, pour être civilisés entre nous.

Dans vos livres, l’individualité des personnages et leur temporalité (vie et mort) ne sont que des moyens au service d'une tâche (combat) sans cesse à recommencer. L'assurance de ne pas voir "le jour de la victoire" peut décourager certains de passer à l'action ("A quoi bon?") – mais  constitue aussi pour d'autres l'essence de leur engagement (dépassement de la peur de la mort). Comment peut-on (ou pourquoi doit-on) lutter, en ces temps de chaos, dans la joie et l'espérance?

Je n’ai écrit aucun roman, je suppose donc que le « vos » de « vos livres » fait référence ici aux romans publiés par le Retour aux Sources. Ou alors, il s’agit d’Eurocalypse, auquel j’ai participé ?

Bref. En tout cas, à titre personnel, je crois qu’un homme ne peut échapper à l’Absurde qu’en préparant sa mort. C’est sans doute en quoi je suis radicalement étranger à mon époque, d’ailleurs. Je n’arrive pas à comprendre à quoi rime l’existence qu’on nous propose, et qui pourrait se résumer ainsi : vous allez consommer le plus possible pour penser le moins possible à la mort, et quand vous mourrez, ce sera discrètement, dans une chambre d’hôpital, avec des soins palliatifs pour que vous ne fassiez pas de bruit et une euthanasie pour économiser les frais médicaux. Où est l’intérêt ?

drac4.gifJe trouve qu’une vie intéressante est une vie où l’on se bat, où l’on souffre, où l’on affronte l’adversité, et surtout, où l’on s’affronte soi-même. Je trouve qu’une vie intéressante est une vie difficile. C’est ce qui me donne de la joie, en tout cas, et peut-être de l’espérance ; je me dis que quand je partirai, couché sur un lit à regarder le plafond en sentant le froid qui remonte de mes pieds vers mon cœur, je pourrai dire au patron, dont je suppose qu’il m’attend de l’autre côté : j’ai joué ma partition, maintenant, tu décides pour la suite. Je trouve que ce qui rend la vie intéressante, c’est de se battre pour en arriver là : savoir qu’on a lutté.

Donc, en somme, pour répondre à votre question : c’est la lutte qui donne joie et espérance. Il ne s’agit donc pas de trouver joie et espérance pour lutter, mais de lutter pour trouver joie et espérance. Enfin, c’est comme ça que je vois les choses.

On trouve dans Vendetta cette sentence très juste : « On peut tout vouloir (…) à condition de vouloir les conséquences de ce qu’on veut ».

Dans un contexte de tensions réelles, et de surenchère générale – consciente ou ignorée - peut-on réellement vouloir précipiter le chaos?

Le narrateur de Vendetta est un homme absolument désespéré. Et c’est terrifiant : imaginez un monde où on aurait fabriqué des millions de fils uniques narcissiques, shootés à la consommation, plongés dans une absurdité radicale, et du jour au lendemain, réduits à la pauvreté, à l’impossibilité de se délivrer de l’Absurde par la consommation, de l’absence de transcendance par la mondanité. C’est le monde de demain, si la machine économique occidentale tombe complètement en panne, d’un coup, alors que le conditionnement consumériste des populations s’est poursuivi jusqu’au dernier moment.

Alors là, oui, en effet, on va avoir des gens qui pourront tout vouloir…

Vous explorez, à travers l'écriture, deux scenarii envisageables dans un futur proche : version décliniste, l’élite continue de piloter sans rencontrer d’écueil majeur et nous mourrons spirituellement. Version catastrophiste (Eurocalypse), l'accident se produit et laisse place au désastre. Comme les survivalistes, croyez-vous à la possibilité d'un collapse rapidement généralisable? Dans ce cas, pourquoi l'élite prendrait-elle le risque d'un clash intégral, alors que le chaos modéré lui permet de régner?

Je suppose que « l’élite », qui a manifestement créé le chaos, est persuadée qu’elle pourra le contrôler de bout en bout, dans un scénario décliniste. Mais la question, c’est : est-ce qu’elle pourra le contrôler de bout en bout ?

Vous savez, le Système n’est pas aussi fort qu’on le croit. Oh, certes, ce n’est pas nous qui allons le renverser frontalement. Mais le risque est réel qu’il se renverse lui-même. Tenez, imaginez, dans quelques années : révolte au Congrès des USA, audit de la FED, fin du financement de la dette par la dette, faillite des Etats US, réduction drastique du budget militaire étatsunien, évacuation des bases US un peu partout dans le monde. Peu après, l’Iran, délivré de la pression US, annonce disposer de l’arme nucléaire. Une « super-Intifada » traverse les « territoires occupés », le Hezbollah multiplie les attaques contre Israël. La Chine, furieuse que les Occidentaux aient organisé la déstabilisation du Soudan pour en récupérer le pétrole, laisse faire la révolte musulmane, et même la soutient discrètement. Paniquée, Tel-Aviv ordonne au MOSSAD de déclencher une série d’attentats sous faux drapeau, en Europe occidentale, pour obliger les Européens à s’engager massivement au Proche-Orient. La France, dont le président est un certain Dominique Strauss-Kahn, envoie des troupes en Palestine. Les banlieues françaises, du coup, s’enflamment…

C’est un scénario possible, parmi des dizaines qui peuvent nous plonger, très vite et presque sans crier gare, dans un contexte si instable que plus personne ne pourra vraiment le maîtriser. Alors la question, ce n’est pas est-ce que « l’élite » veut le chaos (elle le veut), ni elle est-ce qu’elle pense le maîtriser (elle le pense). La question, c’est : est-ce qu’elle pourra le maîtriser ?

Entre violence de bande synonyme de « refus de l’atomisation imposée par le monde moderne » (M. Maffesoli), et dépouille de blancs nantis interprétée comme de la « lutte des classes qui s’ignore » (A. Soral), la banlieue française est-elle en train de « rappeler au peuple qu’il s’est éloigné de la vertu » (in Vendetta)? Peut-elle, entre islam modéré et frustration exaspérée, constituer un relais de force révolutionnaire?

La banlieue française, peut-on en parler au singulier ? « On » voudrait nous faire croire qu’elle est peuplée majoritairement d’islamo-gangsters violeurs, ce qui est ridicule. Il serait tout aussi ridicule de prétendre qu’elle n’est peuplée que de gens vertueux…

La banlieue française me semble surtout, aujourd’hui, faire l’objet de beaucoup de fantasmes. En pratique, j’ai plutôt l’impression qu’on a affaire à un patchwork très hétérogène, où les forces les plus positives coexistent avec des forces extrêmement négatives. Le jeu, de mon point de vue de « de souche », consiste à nouer des alliances avec les forces positives pour neutraliser et si possible éradiquer progressivement les forces négatives.

D’où, soit dit en passant, l’intérêt d’une démarche comme E&R : il est essentiel que les hommes de bonne volonté réfléchissent ensemble à la manière dont on peut sortir de la situation inextricable où notre classe dirigeante nous a mis. Il s’agit de définir un processus de ré-enracinement des populations déportées chez nous par le capitalisme mondialisé – un ré-enracinement soit ici, soit dans leur pays d’origine, selon les cas, mais toujours dans le respect du droit des gens, sans naïveté mais sans préjugés. Il va falloir que tout le monde y mette du sien.

Votre idée de BAD (Base Autonome Durable), ilot fractionnaire, est pensée comme un système superposable au Système. Une alternative en lisière, reposant sur l'autonomie sécuritaire et médiatique, la construction d'une économie alternative et "une esthétique de la rareté, de la conscience et de la possession de soi". L'autonomie de la communauté y serait assurée par le trinôme Gardes (sécurité), Référents (éducation) et Intendants (production visant l'autarcie). Vous soulignez par ailleurs l'importance du légalisme ("c'est de loin la meilleure subversion").

Pourtant, entre bouc-émissairisation (cf. Tarnac) et accomplissement limité (cf. la Desouchière), la BAD n'est-elle pas une idée "grillée"? Par ailleurs, accepter de ne pas dépasser les bornes du système,  n'est ce pas réduire sa marge de manœuvre?

Tout d’abord, je vous ferai remarquer une chose : si j’avais décidé de « dépasser les bornes du système », je ne préviendrais pas…

Ensuite, je reste ouvert à toute autre proposition. Quel concept alternatif à la BAD peut-on me proposer ? Pour l’instant, j’observe qu’on ne m’a rien avancé de bien concluant. Alors la BAD n’est pas la panacée, certes, mais en attendant, c’est une expérimentation à conduire.

Les modes de vie alternatifs existent d'ores et déjà : dans le domaine de l'éducation (écoles Montessori, Steiner, homeschooling,…), de l'autonomie alimentaire (AMAP, magasins de producteurs, …), de l'habitat (auto construction, énergies renouvelables,…),…

Quelle urgence ou nécessité implique de penser l'autonomie sous forme communautaire, comme dans le cas de la BAD ?

Je ne sais pas si la BAD sera nécessairement communautaire. Ce qui est certain, c’est que si vous voulez résister à la pression du Système, il faut que ce soit collectif. Mais communautaire, ce n’est pas obligatoire. On peut très bien imaginer d’ailleurs plusieurs niveaux d’intégration, avec des noyaux communautaires et des entreprises non communautaires gravitant autour, et intégrant progressivement des individus « à cheval », un pied « dans le Système », un pied dehors.

Bref, sur le plan organisationnel, tout est à construire, tout est ouvert. Je crois qu’il faut tester, et c’est l’expérimentation qui nous dira progressivement comment faire.

Nombre de nos camarades s’interrogent sur l’organisation concrète d’une BAD. Se rapproche-t-on des écos-villages développés par Diana Leafe Christian ?  Selon vous, qu’elle serait - entre petites structures totalement autarciques et communautés plus poreuses, donc dépendantes -, la taille optimale d’une BAD? Comment y gérer l’humain (« recrutement », sélection, …) en fonction des différentes sensibilités (du néo-baba au survivaliste) ?

Je n’ai pas d’opinion arrêtée sur la taille des BAD. Il est très possible qu’il existe plusieurs « formats » de BAD, et que ces formats présentent tous points faibles et points forts, à étudier selon les circonstances, les choix des individus constituant le groupe, etc. Nous allons d’ailleurs tester prochainement, avec quelques amis, un projet collectif : nous nous ferons un plaisir d’informer E&R Bretagne sur le déroulement de ce projet, ce sera l’occasion d’échanger des expériences.

Cela dit, ce n’est pas la question-clef.

La question-clef, pour moi, ce n’est pas la BAD, mais le réseau des BAD. Là où la démarche « fractionnaire » que je propose se distingue des solutions « survivalistes » ou « écolos » préexistantes, c’est que je ne suggère pas d’installer des BAD ici, là, et là, d’une certaine manière et pas d’une autre. Ce que je suggère, c’est de construire progressivement, par le réseau des BAD, une contre-société.

Pour moi, si un jour on met au point la « BAD idéale », ce sera très bien, mais ce n’est pas l’objectif. L’objectif, c’est par exemple qu’un jour, la population « ordinaire » apprenne qu’il existe désormais un tribunal d’appel pour traiter en deuxième instance tous les litiges que les tribunaux locaux des BAD auront jugés, en fonction d’un code juridique « fractionnaire » (appelez ça autrement si vous voulez, du moment que cela veut dire : séparé, distinct, de l’autre côté d’une ligne imaginaire séparant Système et contre-société). Ce jour-là, le jour où il existera une Loi de la contre-société, je peux vous dire que nous aurons porté au Système que nous combattons le coup le plus rude que nous pouvions lui porter, avec nos faibles ressources : nous aurons repris la parole.

C’est de cela qu’il s’agit. Et comme vous le voyez, ça n’a rien à voir avec les néo-babas.

Pour conclure cet entretien, et avant de laisser nos lecteurs retourner fourbir leurs armes contre l’hétéronomie, avez-vous quelque chose à ajouter ? Une remarque, un conseil de lecture, une recommandation ou une digression sur un sujet de votre choix, …

Peut-être un mot sur votre président, Alain Soral, qui a (encore) des démêlés avec le lobby qui n’existe pas.

Nous ne sommes pas tout à fait d’accord sur cette question : lui, il croit que c’est la question centrale, et moi, je crois qu’elle est très périphérique, même si elle est très perceptible. En outre, peut-être influencé par le protestantisme, je porte sur le monde juif un regard beaucoup plus nuancé que le sien – et même, dans certains cas, un regard de sympathie. J’aurais sans doute, un jour, pas mal de choses à lui dire sur le livre d’Ezéchiel, l’éthique de responsabilité et la question du « contrat » passé entre l’homme et Dieu dans la religion hébraïque… où notre ami pourrait voir que lire Ezéchiel comme un texte « sioniste », c’est faire un léger anachronisme !

Mais, en attendant, je trouve lamentable qu’on attaque quelqu’un en justice pour des propos où il ne fait que formuler une opinion sur l’état du pays et le rôle d’une communauté. Si ces propos sont fallacieux, qu’on en apporte la preuve dans une discussion ouverte et contradictoire. Depuis quand, en France, la justice doit-elle sanctionner les simples opinions ? Il est possible que celles de monsieur Soral soient erronées : eh bien, qu’on le prouve, qu’on déconstruise son propos, qu’on en montre les limites ou les erreurs. Mais la justice n’a pas à intervenir dans le débat d’idées, ou alors, et qu’on nous le dise franchement, nous vivons sous une dictature.

La judiciarisation du débat, en France, devient étouffante. Elle participe d’une entreprise générale d’intimidation des esprits libres. C’est pourquoi, indépendamment de notre opinion sur le fond, nous devons soutenir Alain Soral quand on prétend le faire taire par décision de justice, alors qu’il n’a formulé aucun appel explicite à commettre le moindre acte illégal.

Sinon, après, à qui le tour, et sous quel prétexte ?

Pour E&R en Bretagne,

Mathieu M. et Guytan

 

jeudi, 13 janvier 2011

Dans les coulisses de notre temps

Dans les coulisses de notre temps

par Georges FELTIN-TRACOL

15fc0fb96752f8.jpgÉcrit par un collectif d’auteurs dont certains avaient déjà participé à la rédaction du roman d’anticipation politique Eurocalypse et qui ont assimilé l’œuvre de Jean Baudrillard, Choc et Simulacre est un ouvrage dense qui interprète, d’une manière décapante, les grands événements en cours.

Les auteurs s’intéressent à la genèse récente du projet hégémonique des États-Unis. Ils rappellent que, sous la présidence de Bill « Tacheur de robe » Clinton (1993 – 2001), des intellectuels préparaient la domination mondiale de leur pays à travers le Project for a New American Century. Ce programme ambitieux parvint à regrouper « conservateurs réalistes », mondialistes patentés et néo-conservateurs malgré des tensions inhérentes incessantes. Au sein du néo-conservatisme même, le collectif relève que « la base militante […] était à l’origine composée de trois groupes dont les valeurs ne sont pas totalement compatibles, et dont les intérêts divergent largement : le “ big business ”, les milieux pro-Israël, la “ moral majority ” (p. 26) ».

Sommes-nous en présence d’une « entente idéologique » factuelle qui œuvre à la suprématie planétaire de Washington ? Oui, mais sans chef d’orchestre patenté puisqu’il s’y concurrence et s’y affronte divers clivages, d’où les ambiguïtés intrinsèques du « conservatisme étatsunien » au début du XXIe siècle. Le collectif prend pour preuve les études de Samuel Huntington. Son « choc des civilisations » était au départ un article répondant à la thèse de Francis Fukuyama sur la fin de l’histoire et le triomphe final du libéralisme. Certes, Huntington y exprimait une vision étatsunienne du monde en distinguant l’Occident euro-atlantique d’une civilisation européenne orthodoxe et en niant toute particularité à l’Europe. Pourtant, même si son thème du « choc des civilisations » va être instrumentalisé au profit du mondialisme yanqui conquérant, Huntington comprit ensuite, dans son dernier essai, Qui sommes-nous ?, que le « choc des civilisations » atteignait les fondements des États-Unis avec une lente « latino-américanisation » de sa patrie…

Les méandres du pouvoir réel à Washington

Les interventions militaires en Afghanistan (2002) et en Irak (2003) marquent l’apogée du néo-conservatisme et donc le début de son déclin à l’intérieur de la « coalition » dominante. « La fracture entre néo-conservateurs d’une part, mondialistes et conservateurs réalistes d’autre part, continue à perdurer, mais désormais, ce sont à nouveau les conservateurs réalistes qui mènent la danse, ayant récupéré le soutien clair et fort des milieux mondialistes (p. 63). » Par ailleurs, le plan « néo-con » a échoué auprès de la population U.S. qui réagit maintenant par le phénomène du Tea Party. Cette nébuleuse mouvementiste présente de fortes inclinations libertariennes et isolationnistes (mais pas toujours !).

Avec ce retour au réel géopolitique, on assiste au regain d’influence de Zbigniew Kazimierz Brzezinski – que les auteurs désignent par ses initiales Z.K.B. -, qui est probablement le plus talentueux penseur géopolitique des États-Unis vivant. Bien que démocrate, ce conservateur réaliste s’active en faveur d’« un ordre mondial aussi unifié que possible, au sein duquel les élites anglo-saxonnes sont prédominantes (p. 47) ». Z.K.B. réactualise de la sorte les vieux desseins de Cecil Rhodes, de la Fabian Society et de l’« Anglosphère » en partie matérialisée par le système Échelon. Ainsi, « l’objectif de la conquête de l’Asie centrale doit être, selon Z.K.B., d’assurer la victoire non de l’Amérique proprement dite, mais plutôt celle d’un Nouvel Ordre Mondial entièrement dominé par les grandes entreprises multinationales (occidentales principalement). Le Grand Échiquier se présente d’ailleurs comme un véritable hymne aux instances gouvernantes du mondialisme économique (Banque mondiale, F.M.I.). Z.K.B. est le premier patriote du Richistan – un pays en surplomb de tous les autres, où ne vivent que les très, très riches (p. 49) ».

Faut-il ensuite s’étonner d’y rencontrer le chantre des « sociétés ouvertes », le co-directeur de la célèbre O.N.G. bien-pensante Human Rights Watch et l’instigateur occulte des révolutions colorées, Georges Soros ? Il soutient de ses deniers « l’Open Society Fund […qui] est destiné officiellement à “ ouvrir des sociétés fermées ” (en clair : empêcher les États de réguler l’activité des grands prédateurs financiers mondialisés) (p. 55) ». Le collectif évoque une « méthode Soros » qui consiste à « semer le chaos souterrainement pour proposer ensuite la médiation qui rétablit l’ordre (p. 82) ». Il n’y a pourtant ni complot, ni conspiration de la part d’un nouveau S.P.E.C.T.R.E. cher à Ian Fleming et à son héros James Bond…

En analysant la production éditoriale d’outre-Atlantique, les auteurs observent néanmoins une nette « difficulté de la coordination entre le tendances de l’oligarchie fédérée U.S. – une oligarchie qui ne parvient à surmonter son incohérence que par la fuite en avant (p. 77) ». En effet, les différentes tendances de la « coalition hégémoniste » veulent d’abord défendre leurs propres intérêts. Ils rappellent en outre l’importance du lobby israélien aux États-Unis, groupe d’influence qui ne se recoupe pas avec l’emprise de la communauté juive sur le pays. Ils signalent aussi les liens très étroits tissés entre le Mossad et la C.I.A. au point que « la coopération entre les deux appareils de renseignement va si loin qu’on peut parler d’intégration mutuelle (p. 70) ». Via l’A.I.P.A.C. (American Israel Public Affairs Committee) et d’autres cénacles spécialisés dont l’Anti Defamation League, « spécialisée dans le harcèlement des opposants. Elle utilise très largement l’accusation d’antisémitisme et, d’une manière générale, promeut un “ souvenir ” de la Shoah qui ressemble à s’y méprendre à une stratégie d’ingénierie des perceptions visant à développer, dans la population juive, le syndrome de Massada (p. 67) », Israël est bien défendu outre-Atlantique. Or la diplomatie de la canonnière néo-conservatrice des années 2000, en chassant du pouvoir les Talibans et Saddam Hussein, a favorisé l’Iran et affaibli les soutiens arabes traditionnels des États-Unis (Égypte, Arabie Saoudite, Jordanie). Prenant acte de cette nouvelle donne non souhaitée, « il y aurait donc renversement d’alliance latent entre W.A.S.P. conservateurs réalistes de l’appareil d’État U.S., mondialistes financés par la haute finance londonienne et lobby pro-israélien néoconservateur, avec Z.K.B., le mondialiste réaliste, en médiateur (pp. 64 – 65). »

L’heure du « médiaterrorisme »

Il ne faut surtout pas se méprendre : ces conflits internes, inévitables, n’empêchent pas l’unité en cas de nécessité ou de but commun. Par ailleurs, cette « entente » emploie avec aisance le mensonge, la désinformation, l’intox et le truquage qui « est l’imprégnation progressive de la cible (p. 17) ». L’hyper-classe étatsunienne pratique une nouvelle forme de guerre : la guerre de quatrième génération (G4G). « Faisant suite à la guerre des masses en armes, à celle de la puissance de feu et à la Blitzkrieg, cette quatrième génération est définie comme la guerre de l’information, impliquant des populations entières dans tous les domaines (politique, économique, social et culturel). L’objectif de cette guerre est le système mental collectif de l’adversaire. Et par conséquent, le mental des individus qui composent sa collectivité (pp. 13 – 14). »

Selon les circonstances et les modalités d’emploi, cette G4G s’utilise diversement. « Le terrorisme est un moyen, pour un pouvoir occulte, de conserver le contrôle soit en éliminant un adversaire (instrumentalisation de l’assassin politique), soit en perturbant un processus sociopolitique (stratégie de la tension), soit en poussant un groupe assimilable à l’ennemi à commettre un acte odieux (stratégie du renversement des rôles, l’agresseur réel se faisant passer pour l’agressé – cas le plus célèbre : la conspiration des poudres, dès le XVIIe siècle, en Angleterre) (p. 106). » Les États-Unis ne sont pas en reste dans l’application régulière de cette tactique, de l’explosion de leur navire, U.S.S. Maine, dans la rade du port espagnol de La Havane en 1898 au 11 septembre 2001 en passant par le transport clandestin d’armes pour les Britanniques dans les soutes des navires neutres – dont le Lusitania – coulés entre 1915 et 1917 et l’attaque de Pearl Harbor, le 7 décembre 1941, après avoir imposé un blocus pétrolier contre le Japon et décrypter dès 1936 les codes secrets nippons… Cessons d’être naïfs ! Comme l’avait déjà bien perçu le situationniste italien Censor (1), « la manipulation du terrorisme, voire sa fabrication, est une vieille stratégie de l’oligarchie américano-britannique. Quelques exemples : Giuseppe Mazzini, au service de l’Empire britannique, pour déstabiliser l’Autriche; ou encore l’instrumentalisation notoire de la Rote Armee Fraktion par les services anglo-américains; ou encore l’instrumentalisation des Brigades Rouges par les services U.S. pour se débarrasser d’Aldo Moro, qui voulait associer le P.C. italien au gouvernement démocrate-chrétien (p. 105) ». N’oublions pas le financement et l’entraînement d’Oussama Ben Laden et d’Al-Qaïda par la C.I.A. ou bien le téléguidage de certains éléments des Groupes islamiques armés algériens par quelques agents anglo-saxons en mission commandée contre les intérêts français en Afrique du Nord, au Sahara et au Sahel…

Le terrorisme se voit compléter par l’arme médiatique. « Aux U.S.A., le storytelling est en train de devenir non seulement une méthode de gouvernement (ce qu’il était depuis longtemps), mais le gouvernement lui-même, l’acte de gouverner. La révolution amorcée pendant le Watergate vient de s’achever : désormais, la gestion de la communication est au centre de l’acte de gouverner, elle n’est plus chargée d’accompagner l’action politique, elle est l’action politique. Désormais, la politique est l’art de parler non du pays réel, mais de l’imaginaire (pp. 99 – 100, souligné par les auteurs). » Le collectif expose ensuite des cas flagrants de « médiaterrorisme » à partir des exemples irakien, afghan et iranien.

Et là encore, les auteurs apportent un tiers point de vue. Pour eux,  « que l’Irak ait possédé des armes de destruction massive ne fait aucun doute, et les Anglo-Américains étaient bien placés pour le savoir : pour l’essentiel, c’est eux qui avaient fourni ces armes à Saddam Hussein. […] Il est possible qu’en franchissant la ligne séparant armes chimiques et armes bactériologiques, Saddam ait outrepassé les autorisations de ses soutiens occidentaux (pp. 91 – 92) », d’où les rétorsions financières, l’incitation suggérée par Washington de s’emparer du Koweït, la guerre du Golfe, le blocus et l’invasion de l’Irak par les gars de Bush fils.

Quant à la situation iranienne, il est clair que « l’Iran inquiète les Américains précisément parce qu’il est en train de réussir ce que les payas arabes sunnites échouent à accomplir : définir une voie musulmane vers la modernité. Les Iraniens sont en train d’entrer dans l’ère du progrès technologique sans pour autant s’occidentaliser en profondeur. La société iranienne se libère, mais pas pour s’américaniser. Téhéran menace de briser l’alternative piégée où l’Occident a jusqu’ici enfermé le monde musulman : s’occidentaliser ou végéter dans l’arriération (p. 121) ». Bref, « l’Iran est un pays musulman qui a des ambitions… et les moyens de ses ambitions (p. 123) ».

Les auteurs dénoncent le détournement médiatique par les Occidentaux des propos du président Ahmadinejad qui n’a jamais parlé de rayer Israël de la carte ! On nuancera en revanche leur appréciation convenue quand ils estiment que « l’Iran n’est pas une démocratie au sens où les pays occidentaux sont démocratiques [sic ! Nos États occidentaux sont-ils vraiment démocratiques ?], mais c’est un État de droit, où le peuple est consulté régulièrement, à défaut d’être reconnu comme pleinement souverain (p. 131) ». Comme si les électeurs français, britanniques, allemands ou espagnols étaient, eux, pleinement souverains ! La Grasse Presse a orchestré un formidable tintamarre autour de la magnifique réélection en juin 2009 d’Ahmadinejad comme elle déplore l’extraordinaire succès populaire du président Loukachenko au Bélarus le 19 décembre 2010. En fait, les premiers tours des présidentielles iranienne et bélarussienne sont plus justes, conformes et légitimes que l’élection de Bush fils en 2000 ou le second tour de la présidentielle française de 2002 ! Ce n’était pas en Iran ou au Bélarus que se déchaînèrent télés serviles et radios soumises aux ordres contre le candidat-surprise du 21 avril !

On aura compris que, dans cette perspective, « avec la G4G, l’armée des U.S.A. avoue donc qu’elle est l’armée du capitalisme globalisé, et que son arme principale est le marketing. Fondamentalement, dans l’esprit de ses promoteurs, la G4G est la guerre de contre-insurrection d’une armée d’occupation planétaire à la solde du capital (p. 14) ».

Un champ de bataille parmi d’autres…

Et la France ? Craignant « le conflit métalocal, c’est-à-dire à la fois totalement local et totalement mondial (p. 8, souligné par les auteurs) » et pensant que « le retour des nations n’est donc pas forcément celui des États-nations : seuls les États-nations cohérents sous l’angle culturel seront cohérents sous l’angle national (p. 37) ». L’État-nation est-il encore un concept pertinent avec une population de plus en plus hétérogène sur les plans ethnique, religieux et cognitif ? Le sort de France préoccupent les auteurs qui insistent fortement sur l’acuité de la question sociale. Ils notent que les fractures françaises deviennent de très larges béances. Ils décèlent dans ce contexte d’angoisse sociale les premières manœuvres de la G4G. « La guerre civile visible, entre groupes au sein de la population, constitue un terrain propice à la conduite souterraine d’une autre guerre, qui l’encourage et l’instrumentalise, c’est-à-dire la guerre des classes dirigeantes contre les peuples. Par ailleurs, avec le trafic de drogues, on a précisément un exemple de contrôle exercé par des forces supérieures sur les quartiers “ ethniques ”. D’où l’inévitable question ? : et où, derrière la constitution en France de “ zones de non-droit ”, il y avait, plus généralement, une stratégie de déstabilisation latente, constitutive du pouvoir de ceux qui peuvent déstabiliser ? (p. 145, souligné par les auteurs). » La G4G emploie des leurres et des simulacres. « Le simulacre, c’est le choc des “ civilisations ”, c’est-à-dire l’affrontement des peuples et familles de peuples. La réalité, c’est le conflit entre le haut et le bas de la structure sociale, et parfois la recherche d’une entente horizontale entre les composantes du haut de cette structure. Le simulacre, c’est presque exactement l’inverse : conflit obligé entre les structures sur une base civilisationnelle, recherche de l’entente verticale au sein de chacune d’elle (p. 152). » Attention toutefois à ne pas tomber dans le piège réductionniste et à se focaliser sur un seul problème comme l’islamisation par exemple. Les auteurs prennent bien soin de ne pas nier les chocs de civilisations qui parcourent l’histoire. Ils se refusent en revanche d’entériner tant sa version néo-conservatrice que dans sa variante angélique. « Énoncer, par exemple, qu’il n’existerait pas d’antagonisme entre populations d’origine européenne et populations d’origine extra-européenne en France serait non seulement dire une contre-vérité manifeste (et se décrédibiliser), mais encore s’inscrire dans la grille de lecture de l’adversaire, qui veut que la question de l’antagonisme soit placé au centre du débat (p. 153). »

Au bord de l’explosion générale, l’Hexagone se retrouve au centre d’une imbrication de luttes d’influence variées. « Les tensions observées en France ne peuvent se comprendre indépendamment de l’action des réseaux d’influence géopolitiques. On citera en particulier l’action des réseaux F.L.N. au sein de la population d’origine algérienne, le poids de l’islam marocain au sein de l’islam “ de France ”, l’influence certaine des services israéliens (Mossad) au sein de la population juive, à quoi il faut sans doute ajouter des influences construites par les services U.S. (pp. 141 – 142) (2) ». Écrit avant la publication des documents diplomatiques par WikiLeaks, les rapports secrets du département d’État des États-Unis prouvent l’incroyable sape des services yankees auprès des médias hexagonaux, du microcosme germano-pratin et dans les banlieues. Sur ce dernier point, Luc Bronner rapporte que « les Américains rappellent la nécessité de “ discrétion ” et de “ tact ” pour mettre en œuvre leur politique de soutien en faveur des minorités (3) ». L’objectif de Washington demeure d’éliminer une puissance gênante… Loin d’être des combattants de l’islam radical, la racaille des périphéries urbaines est plutôt l’auxiliaire zélé de l’américanisme globalitaire ! Ils en ignorent ses richesses métaphysiques et les expériences soufies et singent plutôt les Gangasta Rap yankees : on peut les qualifier sans erreur d’« Islaméricains ».

Que faire alors ? « La réponse adaptée à la guerre de quatrième génération, c’est la guerre de cinquième génération : la guerre faite pour préserver la structure générale du sens (p. 154) », soit élaborer une métapolitique liée au militantisme de terrain sans portée électorale immédiate. Et puis, ajoutent-ils, « fondamentalement, il faut faire un travail de formation (p. 154) ». Que fleurissent mille séminaires discrets d’où écloront les rébellions française et européenne ! Que se développe un ordonnancement réticulaire, polymorphe et viral des milieux de la dissidence régionale, nationale et continentale ! L’heure des hommes providentiels et des sauveurs suprêmes est révolu ! Dorénavant, l’impersonalité active doit être un impératif pour tous les militants ! Choc et Simulacre nous aide dans la juste compréhension des enjeux actuels.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : Alias Gianfranco Sanguinetti. Il publia en 1975, sous ce nom de plume, un Véridique Rapport sur les dernières chances de sauver le capitalisme en Italie, puis en 1980, Du terrorisme et de l’État, la théorie et la pratique du terrorisme divulguées pour la première fois révélant le rôle trouble des services secrets italiens dans les activités des Brigades Rouges.

2 : Il serait bienvenu (un vœu pieu ?) qu’un éditeur traduise en français l’ouvrage récent du journaliste Giovanni Fasanella et du juge anti-terroriste, Rosario Priore, qui, dans Intrigo Internazionale (Chiarelettere éditeur, Milan, 2010), dévoilent la véritable guerre secrète opposant dans les décennies 1970 – 1980 les différents « services » des puissances occidentales et atlantistes. Qui nous dit que les États-Unis ne chercheraient pas à transposer en France ce que l’Italie des « années de plomb » a connu avec une nouvelle « stratégie de la tension », cette fois-ci, activée dans les banlieues ?

Par ailleurs, dans une bande dessinée politique intitulée La Droite ! : petites trahisons entre amis (scénario de Pierre Boisserie et Frédéric Ploquin, dessin de Pascal Gros et couleur d’Isabelle Lebeau, Éditions 12 bis, 2010), les auteurs assènent dans une vignette que dans les années 1970, le S.D.E.C.E. (le contre-espionnage extérieur français) était partagé entre les obligés des Anglo-Saxons et les affidés des services israéliens…

3 : Luc Bronner, Le Monde, 2 décembre 2010.

• Collectif européen pour une information libre présenté par Michel Drac, Choc et Simulacre, Le Retour aux Sources éditeur, 2010, 164 p., 13 €, à commander sur www.scriptoblog.com ou à Scribedit, 33, avenue Philippe-Auguste, 75011 Paris, France.


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vendredi, 05 novembre 2010

Il n'y a que la mauvaise presse qui sauve ou Philippe Muray ressuscité

Il n'y a que la mauvaise presse qui sauve ou Philippe Muray ressuscité

 «Par ailleurs, il devient facile de reconnaître un écrivain conformiste : c’est celui, tout simplement, qui se flatte le plus haut et le plus fort d’être politiquement incorrect.»
Philippe Muray.


muray39370.gifÀ propos de Philippe Muray, Essais (Éditions Les Belles Lettres, 2010).

 

Lui qui avoua sa fascination et sa répulsion pour le grand Karl Kraus, retrouva même quelque peu de l'ire vindicative du fameux et terrifiant polémiste durant cette période bénie ou maudite, c'est selon, pendant laquelle les médiocres durent prendre un ticket numéroté et faire la queue en attendant le bon plaisir du maître désormais incontournable et bien trop visible pour qu'on puisse continuer à faire taire sa voix subtile et puissante. Il tenait, en somme, sa revanche sur les cuistres. Il était vivant. Philippe Muray, lui, ne l'est plus.
Nous ne sommes jamais assez durs avec les journalistes, c'est peut-être ce que découvrit aussi, avec un peu de stupeur tout de même, Elias Canetti. Leur médiocrité est toujours un cran au-dessus (ou au-dessous, c'est affaire de perspective) de celle que, par compassion plus qu'ignorance, nous avions cru être le maximum qu'un être humain pût supporter sans se dissoudre instantanément. Comme les créatures des très grandes profondeurs sous-marines, les journalistes se sont adaptés à des pressions extrêmes, n'ont pas besoin de lumière, se nourrissent des déchets qui lentement glissent vers leurs petites bouches translucides et, pour certains, parviennent même à écrire sans avoir, une seule fois, pris la peine de remuer leurs branchies atrophiées.
Tous ont beau ne pas être les résidents de la fosse dite de Marianne, ils n'en sont pas moins extrêmophiles, comme disent les biologistes qui paraissent tous les jours découvrir de nouvelles espèces de ces monstres mous habitués à l'obscurité la plus impénétrable. Vivants, ils sont morts car, à de pareilles profondeurs, toute dépense d'énergie inutile peut être létale. Ils végètent, ils planctonnisent, ils regardent parfois, de leurs gros yeux globuleux et aveugles, le ciel impénétrable et très profondément noir qui tend sa gueule au-dessus d'eux.
Vivants, s'agitant, ils sont déjà morts et se nourrissent de la chair de certains morts, mille fois plus vivants qu'eux.
Voyez-les, tous ces imbéciles claironnants et demi-soldes boulevardiers qui découvrent Philippe Muray quelques années seulement, ce n'est déjà pas si mal me dira-t-on, après sa mort, et encore, pressés qu'ils sont d'écrire leurs petits articulets navrants et incultes pour ne pas paraître en reste de ceux de leurs confrères, bluettes elles-mêmes incultes et creuses, voyez-les qui rédigent des papiers tellement originaux que le plus scrupuleux des experts en faux ne pourrait établir aucune différence entre eux. Ils s'agitent. Ils frétillent. Ils bavardent. Ils ne créent rien, car ils sont morts bien que vivants, et le règne des morts-vivants est une constante mais inéluctable pétrification, comme nous le voyons dans l'étonnant conte de Michel Bernanos. Il y a plus de différences entre deux ouvrières d'une termitière japonaise qu'entre deux journalistes qui partagent la même table de restaurant, rêvent de partager la même maîtresse et, quoi qu'il en soit, défendent les mêmes idées, c'est-à-dire celles qui sont l'émanation de l'air du temps.
Même le très gauchi et bientôt centenaire Jean Daniel, m'a-t-on dit, s'est subitement mis à trouver du génie à son illustre cadet contempteur, Philippe Muray, promettant à son fantôme ironique de sonner l'hallali, le derrière vissé sur sa bréhaigne, pour une cavalcade poussive de quelques centimètres sur les pâtures du lieu commun. Il ne sera pas dit que l'illustre Jean Daniel a méprisé, du moins après son trop court séjour sur terre, Philippe Muray.
Élisabeth Lévy elle-même, inflexible Cassandre du marronnier réactionnaire plutôt que du scoop véritable, causeuse lassante y compris même lorsqu'elle consent à vous laisser parler, journaliste point trop inintéressante tout de même lorsqu'elle écrit plutôt qu'elle bavarde, ronchonneuse professionnelle qui a réussi à faire reconnaître aux services de l'État la profession de mouche du coche, moderne incarnation d'une Amazone de toute éternité contrariée et peut-être même de tous les dangers réunis de la sauvage Amazonie ou de ce qu'il en reste, walkyrie miniaturisée du verbe journalistique qui ne rate jamais une occasion de se prétendre femme jusqu'aux bouts de ses flèches enduites de curare et d'affirmer qu'elle ne doit rien aux hommes (pas même sa propre naissance, référence faite à une conversation animée, désormais ancienne, en présence de Maurice G. Dantec), Élisabeth Lévy en personne n'a pas eu assez de mains et de pieds pour serrer tous ceux de ses collègues journalistes masculins lors de telle récente soirée privée (ce mardi 21 septembre vers 18 heures, au Lucernaire, un restaurant naguère fréquenté par Muray) où elle but les paroles de Fabrice Luchini, pas franchement dupe du cirque qui l'entourait et même, bien que disert et aimable, étrangement réservé.
Bien évidemment, unique couac (ou peu s'en faut) dans cette magnifique symphonie en culbute majeure, j'aurais quelque mauvaise grâce à ne point saluer le mystérieux regain d'intérêt dont paraissent (restons prudents) bénéficier les livres (en l'occurrence, ses exorcismes spirituels, regroupés en un seul beau volume préparé par Vincent Morch pour les Belles Lettres) de Muray mais enfin, nul ne m'en voudra je l'espère de jeter quelque sonde soupçonneuse dans la flache de cette subite attention, ni même de gentiment moquer le fait que le meilleur livre de cet auteur, le livre même qu'il n'a fait que décliner ou répéter jusqu'à sa mort, je veux bien sûr parler du XIXe siècle à travers les âges, est tout aussi étonnamment absent des meilleures ventes de la rentrée, catégorie essais comme il se doit.
Gageons même que cette si propitiatoire période de ventes d'ouvrages de qualité soit elle-même affublée d'une tare que Philippe Muray avait caractérisée de la façon suivante : «Il n’y a pas de lucidité sans séparation. Il n’y a pas non plus de littérature sans conflit et sans aggravation de conflit» (1).
Nous pouvons tirer deux postulats de cette constatation trempée, comme l'acier, dans un bain d'eau froide. D'abord, puisque nous voici plongés dans la mélasse la plus indifférenciée où gauche et droite se disputent la dépouille aimablement désagréable d'un mort et tentent de convoquer au-dessus de leur table barbante son mauvais génie posthume, le phénomène auquel nous assistons est tout ce que l'on voudra sauf le témoignage d'une miraculeuse prise de conscience, pour ne point évoquer, comme Muray le fait, quelque lucidité qui n'est tout de même pas la vertu la mieux partagée par nos contemporains, surtout s'ils exercent la profession immodeste de journaliste.
Ensuite, puisque ce remarquable et sans contestation possible mélodique accord sur la portée des œuvres de Muray nous a plongés dans le sucre candi des bons sentiments qui creusent, comme des larves de mouches, leur nid douillet dans la dépouille d'un auteur qui fut un redoutable vivant, il y a fort à craindre que la littérature soit, de nouveau l'absente des bouquets de toutes ces fiancées froides qui pleurent la mort d'un fiancé et même celle d'un véritable père, d'un père plus intensément père en ceci qu'il ne présente aucun lien de parenté avec les intéressées.
Pardon, vous me dites qu'il n'y a, encore elle, qu'Élisabeth Lévy qui menace de faire monter le niveau de la Seine à force d'ouvrir les vannes cyclopéennes de ses conduits lacrymaux ? J'ai cru qu'elles étaient au moins un bon millier, ces Antigones s'arrachant de douleur les cheveux et criant sur tous les toits, sur tous les plateaux de télévision, sur toutes les ondes radiophoniques que c'était bel et bien le corps maltraité de leur propre malheureux frère qui était laissé sous les soleils corrupteurs des flashs des photographes qui, par conscience professionnelle sans doute, se déclarent près à déterrer un cadavre pour voir si sa texture réactionnaire l'a affublé de particularités anatomiques troublantes.
Non, il n'y a sur scène, vérification faite auprès du metteur en scène de notre impeccable et si actuelle tragédie, qu'Élisabeth Lévy mais celle-ci, phénomène qui devrait passionner et intriguer les physiciens de l'étrange et même les frères Bogdanoff, semble posséder la particularité d'être sur plusieurs plateaux d'émissions télévisées en même temps, à seule fin d'y délivrer son message aussi convenu que le bruit d'un coucou d'horloge suisse, prêt-à-consommé de crieuse et gouaille vulgaire de cabaretière éraillée rendant grâce au père, maître, intercesseur, modèle et bientôt bienheureux Philippe Muray d'avoir irrigué de sa sève polémistique les plates-bandes où poussent ses quelques navets journalistiques de si pâle couleur qu'on les confond avec des feuilles de gélatine.
La si brillante et versicolore réacosphère, ce mélange improbable de petits frontistes se planquant derrière des pseudonymes, de gros beaufs avinés commentant, comme le matin ils sont accoudés au zinc et le ballon de blanc faisant cercle sur un exemplaire de SAS, les communiqués immondes, suintant la haine et la peur la plus ignoble, la crispation identitaire autour de belles valeurs gersoises qu'hélas ces lamentables vivandiers de l'action politique véritable n'illustrent guère par leurs écrits, émis, avec un sérieux d'un grotesque inégalé, par le ridicule Parti de l'In-nocence de Renaud Camus, cette si probe congrégation d'évanescents ectoplasmes appartenant, par leur seul corps astral, à la Nouvelle Droite, ce maigre raout de puceaux proches de la quarantaine qui croient sans rire que Kierkegaard, Chesterton, Unamuno et peut-être même le Christ en personne leur soufflent à l'oreille les phrases suintantes de prétention et de vulgarité qui composent leur catéchisme névrosé et enfin ce bordel bien sous tout rapport composé de vieilles demi-mondaines confondant hostie et godemiché et ne se rendant pas compte qu'elles risquent une déchirure anale plutôt qu'une excommunication papale, la réacosphère donc, mutualisation de talents nanométriques et de prétentions himalayesques adore, mais alors là vraiment adore, paraît-il, les textes d'Élisabeth Lévy.
Ce doit donc être, hypothèse la plus sobre, un fameux signe d'excellence. Il est vrai que cette même réacosphère aime immodérément Philippe Muray, qu'elle ne cite d'ailleurs jamais très précisément, se contentant de tirer, sur sa face blême et maladive, un peu de la lumière crue que Muray dirige toujours, avec une cruauté raffinée, sur ses cibles fuligineuses.
Revenons au texte de Muray, qui poursuit, dans le même ouvrage : «Un critique, plutôt que de perdre son temps à analyser tous les romans de néo-sacristains, tous ces livres rédigés avec un style directement trempé dans le préservatif, pourrait s’amuser à les rapprocher de slogans publicitaires connus, montrer qu’ils se ramènent tous à l’une ou l’autre des injonctions récentes de la pub» (p. 13).
Un bon critique, colligeant donc les différents titres qui ont récemment fleuri à propos de la découverte, par de hardis paléontologues, d'un nouveau type humanoïde baptisé Homo festivus festivus (en somme, le sursinge qui prend conscience du fait qu'il fait la fête) en hommage à celui qui en avait théorisé le chaînon clinquant, Philippe Muray, pourrait donc montrer qu'ils ne sont que la forme la plus récente, et déjà parfaitement obsolète, de l'éternelle hydre publicitaire, dont voici quelques têtes sans beaucoup de cerveau : Exorcismes spiritueux pour Philippe Lançon (Libération Livres du 24 juin) qui commence nullement par un «Être de son époque, c'est savoir la détester», Désaccord parfait pour Laurent Lemire (Livres Hebdo du 16 septembre) qui, encore plus stupidement, n'a pas peur de faire hurler de rire ses lecteurs en calant dès son point de badinage : «Il y avait quelque chose de vrai chez Philippe Muray (1945-2006), c'est ce qu'il pensait», Le mieux-disant pour l'inégalable Aude Lancelin (Le Nouvel Observateur, semaine du 22 au 28 juillet), qui bavarde sur Fabrice Luchini, cet interprète de la Modernité qui, non content d'avoir mis Paris à ses pieds, a bel et bien réussi l'exploit de faire courber la nuque si raide de quelques journalistes après leur avoir déclaré qu'il n'était pas plus de droite que de gauche. Quoi d'autre encore, puisqu'il est vrai que même le canard le plus déplumé de France et de Navarre y est allé de sa petite bluette admirative pour Muray, histoire de ne pas rater la curée journalistique et peut-être même, qui sait, d'être repéré par les grosses légumes parisiennes ? Le petit-fils naturel de Georges Bernanos, Sébastien Lapaque, le sobre François Taillandier pour Le Figaro ou sa déclinaison en revue, le si mélomane Benoît Duteurtre (Marianne du 25 septembre) qui fait mine de s'extasier sur les rythmes délicieusement reggae du très oubliable Ce que j'aime ou l'intrusion de Léon Bloy dans la comptine pré-natale, tandis que Pierre Bottura (Philosophie Magazine du mois d'octobre) nous révèle, bien conscient qu'il prend des risques peut-être exagérés, que Philippe Muray était «romancier, essayiste et critique d'art», travail d'enquête tout de même moins poussé que celui de Tristan Savin (pour Lire du mois d'octobre), lequel rend grâce à l'histrion Luchini d'être un histrion. Subtile fausse note, celle émise par Alain Finkielkraut, l'autre père spirituel et intellectuel de notre chère Élisabeth, encore elle, note grinçante bien évidemment recueillie par l'antenne d'Arecibo d'une extrême finesse qu'est notre impénitente journaliste (Causeur numéro du mois de septembre) qui remet le couvert pour Le Point (du 16 septembre) où elle nous apprend que, chez Muray, «jubilation et exécration sont sœurs».
Si je n'avais pas connu les livres de Muray depuis quelques années, ces poussées hormonales imprimées sur papier recyclable m'auraient-elles donné envie de me jeter sur eux ?
Je ne crois pas.
Je suis même certain que non.
Il n'y a pas seulement, hélas, dans la canonisation actuelle dont Philippe Muray est la victime muette, que dévaluation du verbe, ce qui ne doit point nous étonner puisqu'il s'agit là de la plus constante et habituelle production des bouches mécaniques que sont les journalistes. En effet, si, selon notre redoutable polémiste, l'histoire de la littérature est celle des «prospérités de l'irrespect» (p. 250), nous ne pouvons que constater que Philippe Muray n'est point salué comme un véritable écrivain mais, tout au plus, comme un penseur réactionnaire, c'est-à-dire peu ou prou comme un fâcheux en perpétuelle colère contre le monde entier et nageant à contre-courant du fleuve tranquille où la France finit de noyer son ennui vertueux de n'être plus rien.
Puisque le fantôme de Muray est ces derniers temps très sollicité, j'oserai abuser quelque peu de son temps et poursuivre la lecture d'un de ses recueils de textes. Qu'est-ce qu'un bon critique selon Philippe Muray qui doit décidément se tordre de rire en nous observant du coin de l'œil ? C'est en tout premier lieu un esprit qui s'écarte de la foule et ne salue, dans un livre, que son essence la plus profondément romanesque, rien, donc, qui puisse ressembler au charlatanisme actuel consistant à mélanger pseudo-verve et acrimonies habituelles contre l'air du temps. Qu'est-ce dire ? Que Muray place la tâche du critique à une magnifique hauteur, la leste d'une lourde responsabilité. La critique est, ni plus ni moins, une œuvre qui répond à une œuvre. Non point un Du Bos, ni même un Thibaudet ou un Sainte-Beuve mais, tout simplement, tout impossiblement, un Conrad, un Joyce, un Faulkner, un romancier extravagant, un romancier sans roman, un maître du langage second cher à Foucault qui n'aurait pour seule mission que celle de pénétrer les romans qu'il n'a pas écrits, qu'il ne peut pas écrire, avec la souveraine vision de leur propre créateur.
C'est quelqu’un donc, ce critique idéal sinon rigoureusement surhumain, qui ne se considérerait pas comme «un agent culturel destiné à signaler au public des produits culturels (les livres), quelqu’un qui serait donc également un bon critique de la société [apte à devenir] un spécialiste de toute la consternante fantasmagorie qui tend socialement à rendre le roman impossible» (pp. 4-5).
Et Muray de poursuivre en écrivant que : «La connaissance de l’ennemi, la science de l’ennemi des romans, c’est-à-dire de presque tout ce qui se met en place, aujourd’hui, sous nos yeux (y compris dans certains romans, dans ceux que je viens d’évoquer par exemple, les livres de la nouvelle Bibliothèque rose universelle, les romans de l’École des sacristains), voilà ce qui pourrait être le propre de la critique, d’une critique faite dans l’intérêt de l’art romanesque, et non dans le dessein de s’auto-célébrer, de justifier sa propre existence ou carrément de nuire, comme les deux charlatanismes critiques, l’universitaire et le médiatique […]» (p. 14).
Curieux que nul, à ma connaissance du moins, n'ait songé à commenter cette célébration si spontanée et post-mortem du génie de Philippe Muray en l'éclairant par la seule lumière qui en révélerait la part d'ombre. Nous sommes ainsi parvenus au cœur de notre sujet, comme le fantôme de Muray d'ailleurs ne manque pas de nous le confirmer d'un sourire à peine esquissé.
C'est d'ailleurs, une fois de plus, l'auteur lui-même qui nous donne la clé de ce rituel propitiatoire autour d'une tombe encore fraîche, clé qui nous fait retrouver la magnifique ligne de basse qui cimente l'architecture du XIXe siècle à travers les âges. Cette clé est fort commune, qui ouvre pourtant toutes les portes, y compris celles qui sont réputées être les plus inviolables. Lisons Muray puisque c'est ce que ne font pas, jamais, nos amis les journalistes : «La Révolution française, mouvement de panique contre cette sortie du religieux, sursaut de révolte contre la mort des dieux, tentative de retrouver par la terreur (et d’abord par l’exécution d’un roi de «droit divin», reprise modernisée des rituels sacrificiels de rétablissement de l’ordre social dans les communautés primitives) la légitimité transcendante volée au peuple par le souverain et son clergé, bruits et clameurs contre la désertification de l’espace magique (restauration des fêtes de la Fertilité universelle), ne pouvait donc pas voir le jour dans un pays protestant, par exemple, pour la bonne raison que la Réforme y avait déjà opéré le réancrage rationnel et social du religieux et que les liens de parenté y avaient été énergiquement renoués contre la Rome vaticane déréalisante, déterritorialisante, désubstantifiante» (p. 344).
Les festivités qui ont depuis quelques semaines lieu autour de la dépouille de Philippe Muray sont donc liées à une cérémonie propitiatoire, voire fertilisante, sur laquelle Jeanne Favret-Saada a mené ses patientes enquêtes qui toutes ont révélé le fait que, à l'insu bien sûr de celles et ceux qui en constituent les participants enfiévrés, les prestiges secrets du sacré ne s'exposent jamais mieux que dans les mouvements de foule. La ruse de notre âge est de remplacer par une fausse spontanéité l'évidence charnelle tout autant que symbolique de gestes parfois incompris, transmis néanmoins pieusement au fil des générations, qu'il s'agisse de rites impies ou de survivances de croyances païennes. L'âge de la masse a étendu la surface sur laquelle le sacré va agir, faisant lever la pâte du présent insignifiant, parce que cet âge sans âme ni cœur est incapable de totalement le détruire : de quelques personnes vivant en vase clos, communautés religieuses fanatisées ou petits villages gagnés par les démangeaisons de l'interdit, nous voici face à des océans d'être indifférenciés dont les pensées, toutes semblables, paraissent agitées d'un lent mouvement cauchemardesque.
Un mort attire toujours les vivants, pas besoin de lire Monsieur Ouine pour nous en convaincre. Un mort permet aux vivants de se croire plus vivants qu'ils ne le sont en vérité. Ainsi, le consternant spectacle que nous avons sous les yeux est-il le contraire même d'une œuvre critique qui, pour sa part, tenterait de redonner vie, à l'abri des regards curieux, au fantôme qu'est Philippe Muray. Les journalistes se nourrissent d'un mort formidable, eux qui ne vivent pas. Le véritable critique doit rendre Muray à la vie, commander à Lazare de sortir de son tombeau puant, lui redonner chair et réelle présence, en montrant que ses textes ont parfaitement sondé les reins de notre époque, en montrant que Philippe Muray est plus vivant que ses zélateurs nécrophages et ses livres plus réels que leur propre langue saponifiée.
Notre seul guide, dans ce petit exercice de lecture ? Philippe Muray, encore, jamais aussi passionnant que lorsqu'il utilise son flair infaillible pour déterrer l'unique truffe qui fait rêver tous nos cochons : «La connaissance et l’analyse théologiques passeraient donc aujourd’hui par des formes inconnues des pères de l’Église et qui les surprendraient plutôt ? Oui, et il me paraît démontrable, par exemple, que l’enquête accomplie dans ses romans ou nouvelles par quelqu’un comme Flannery O’Connor en plein Sud américain, au cœur même de l’occultisme yankee halluciné, cet autre western hérétique et chamanique mettant en scène des prêcheurs ambulants, des révérends délinquants, des baptistes fous, des guérisseurs échappés d’asile poursuit à sa façon les extraordinaires reportages de saint Irénée de Lyon ou de saint Épiphane sur les officines gnostiques des premiers siècles chrétiens…» (pp. 259-260).
Dans un texte intitulé Il n’y a que la mauvaise foi qui sauve datant de 1985, dont ma note a du reste parodié le titre, Philippe Muray affirme encore que : «La fiction, toute la fiction, toute la nécessité du roman, sortent du coup de théâtre du péché, de l’intuition d’une impureté ou au moins d’un malentendu de base, d’une racine sombre et gluante au fond du fond, d’une Défaite terrible à l’heure du big-bang» (p. 256).
Spécifiquement religieux ou tout simplement utilisant la ruse de l'oraison qu'est le sacré aux milliers de visages, le Verbe ne peut en finir d'épuiser sa cargaison de signes incompréhensibles pour qui refuse de braquer son regard sur un horizon bruissant de révélations.
La conclusion de cette note que l'on affirmera être, dans le meilleur des cas, discordante, est une prière, comme toute conclusion qui se respecte : «Un écrivain religieux, loin du bornage de nos repères plombés, esquisse un vol nomade insaisissable, transversalement, au-dessus des frontières. Un écrivain religieux ne peut être que le véritable nomade de notre temps sans religion, mais plein du bruit et de la fureur de sa mort ressassée» (p. 191).
Un écrivain lucide aussi, cher Philippe Muray.

Notes
(1) Philippe Muray, Rejet de greffe (Exorcismes spirituels, 1) (Les Belles Lettres, 2006), p. X. Les références entre parenthèses renvoient à cet ouvrage, bien évidemment recueilli dans le fort volume récemment publié par Les Belles Lettres. La citation placée en exergue de cette note provient de ce même volume, p. 376 (originellement : La mondification (Autopsie du pacifisme), L’Esprit libre, n°12, 1995).

dimanche, 10 octobre 2010

On achète bien les cerveaux... Sur la publicité et les médias

 

On achète bien les cerveaux...

Sur la publicité et les médias

Ex: http://zentropa.splinder.com/

"Les liens des régies publicitaires avec les neurosciences prouvent que la fabrication de "cerveaux humains disponibles" chers à Patrick Le Lay, le président de TF1, est devenue une réalité des médias. Une idéologie est à l’oeuvre : elle vise à nous rendre étrangers à nous-mêmes pour faire de nous des cibles normées en fonction d’intérêts marketing.

Je suis l’auteur d’un livre dont vous n’entendrez probablement jamais parler dans vos journaux, à la télévision ou même à la radio. Son nom ? On achète bien les cerveaux (édition Raisons d’agir, 2007). Il ne s’agit pas d’un opuscule tendancieux ou d’un brûlot d’extrême gauche ou d’extrême droite. Simplement, c’est un livre qui prétend apporter une analyse critique sur un phénomène qui rythme notre quotidien : l’omniprésence massive de la publicité et ses conséquences sur les médias. Le titre fait bien sûr référence à la phrase prononcée en 2004 par Patrick Le Lay, le PDG de TF1, sur le « temps de cerveau humain disponible » que le patron de la chaîne s’enorgueillit de vendre à Coca-Cola. Je suis allée enquêter dans le cœur même de la machinerie publicitaire de la Une. Et ce dont je me suis aperçue, c’est que la commercialisation du cerveau du téléspectateur n’est pas un phantasme ou un abus de langage. C’est le reflet de la plus stricte vérité si l’on en croit les propos de neurologues qui travaillent aujourd’hui pour les principaux médias, dont TF1, sur l’impact de la publicité dans la mémoire.

Le temps n’est plus où l’on se contentait de tests et de post-tests pour prouver l’efficacité des messages publicitaires. Face à des nouveaux médias comme Google ou Yahoo, qui proposent à l’annonceur de payer pour chaque contact transformé en trafic et de suivre le client à la trace, les grands médias cherchent à montrer qu’ils arrivent à pénétrer l’inconscient des consommateurs. A l’instar des grands annonceurs américains, ils ont confié à une société spécialiste des sciences cognitives, Impact Mémoire, le soin d’explorer ce que le cerveau retient dans la communication publicitaire. Pour cela, les « neuromarketers » ont recours à une machine uniquement utilisée jusqu’à présent à des fins médicales, pour détecter les tumeurs par exemple : l’imagerie à résonance magnétique (IRM). Que disent les expériences menées en laboratoires ? Que la zone du cerveau réactive aux images publicitaires, le cortex prefrontal médian, est associée à l’image de soi et à la connaissance intime qu’on a de soi-même (c’est la région cérébrale qui est affectée lorsqu’il y a des troubles de schizophrénie par exemple). En activant le cortex prefrontal médian, les neuromarketers cherchent donc à réussir l’alchimie parfaite : l’opération qui consiste à transformer tout amour de soi en tant que soi - le narcissisme - en amour de soi en tant qu’autre - une cible publicitaire. La publicité vise donc à nous rendre en quelque sorte étrangers à nous-mêmes pour modeler en nous des comportements normatifs qui épousent les intérêts des firmes commerciales.

On le sait depuis Jean Baudrillard et John Kenneth Galbraith, la société de consommation ne peut exister sans son corollaire publicitaire. Car seule la publicité crée dans les têtes une urgence fantasmatique et pavlovienne sans laquelle il n’est pas de tension consumériste : c’est parce que je suis sans cesse sollicité par un univers euphorisant, rempli de symboles de bonheur, que je tends vers la jouissance de l’acquisition matérielle. De cette tension naît un désir structurant dans la mesure où il permet à l’individu d’exister en tant qu’homo consumans. Adhérer aux valeurs de l’imagerie publicitaire - « On vous doit plus que la lumière », « Vous n’irez plus chez nous par hasard », « Parce que je le vaux bien » -, c’est communier aux nouvelles icônes des temps modernes. Il s’agit de prendre corps dans l’espace collectif, de se transfigurer dans une identité à la fois plurielle et, puisqu’elle s’adresse à moi en tant que cible, singulière. L’essayiste François Brune parle d’une « volonté de saisie intégrale de l’individu dans ce qu’il a d’anonyme ». D’où un principe clé de la domestication des esprits : chacun cherche à se ressembler en tant que tribu consommatrice. C’est en effet parce que je renonce à mon appartenance à une identité universelle pour m’inscrire dans une fonctionnalité « tribalisée » que j’abdique de ma citoyenneté au profit d’un label de consommateur tel que l’entend l’ordre marchand. Ce faisant, la publicité permet la mutation d’une société de classes vers autant de cibles qu’il y a d’intérêts et de positions économiques à défendre. Elle vise la reproduction et la permanence de stéréotypes inhérents à tout message établi en fonction d’un statut supposé sur l’échelle sociale.

Seulement, puis-je réellement me retrouver dans cette incessante musique d’ambiance que je n’ai pas sollicitée ? Comme l’a montré Bernard Stiegler dans De la misère symbolique (éditions Galilée, 2004), « on ne peut s’aimer soi-même qu’à partir du savoir intime que l’on a de sa propre singularité ». Or les techniques marketing, parce qu’elles me donnent à entendre et à voir des sons et des images identiques à celles de mon voisin, me construisent une histoire qui est semblable à celle de mes congénères. Comme tel, c’est bien à un effondrement de la conscience individuelle et à une dissolution du désir que nous conduit l’idéologie publicitaire : « Mon passé étant de moins en moins différent de celui des autres parce que mon passé se constitue de plus en plus dans les images et les sons que les médias déversent dans ma conscience, mais aussi dans les objets et les rapports aux objets que ces images me conduisent à consommer, il perd sa singularité, c’est-à-dire que je me perds comme singularité ».( De la misère symbolique, op. cit. p. 26). Selon Bernard Stiegler, le règne hégémonique du marché entraîne inexorablement la ruine d’un « narcissisme primordial » en ce sens qu’il induit un « conditionnement esthétique » qui est aussi une « misère libidinale et affective ». En s’identifiant à la cible publicitaire à laquelle il est supposé appartenir, le consommateur consent par là même à la dissolution de son désir individuel dans un « nous » artificiel créé pour les besoins d’édification du marché des classes dominantes.

De ce conditionnement va naître une nouvelle socialité phantasmatique qui amène le consommateur à se sentir déterminé beaucoup moins par son groupe de classe, son origine sociale, que par des aspirations collectives véhiculées par les médias. Ce n’est d’ailleurs pas tant des emblèmes statutaires que cherche à promouvoir la publicité que des rapports imaginaires qui permettent à l’individu d’exister virtuellement dans le regard de ses contemporains. Tout est prétendument accessible, y compris le luxe, puisque je ne suis plus prisonnier de mon statut mais libéré par ma consommation. A la vieille division archaïque entre dominants et dominés doivent venir se substituer des communautés de désirs susceptibles de reconstruire un « nous entièrement fabriqué par le produit ou le service » comme dit Stiegler.

L’ homo economicus est en quelque sorte consommé par ce qu’il consomme. Il se jette à corps perdu dans l’addiction consumériste, non pas tant dans une course éperdue à l’avoir, comme on le croit souvent, mais pour être. Car le bonheur publicitaire apporte une forme de plénitude fugace dans une société privée de repères politiques et esthétiques. Après la fin proclamée des idéologies et l’avènement d’une classe moyenne de plus en plus compromise par des tensions inégalitaires, il structure notre être de façon rituelle en permettant la transfiguration d’un « je » devenu anarchique, incontrôlé, en un « nous -cible » standardisé et resocialisé.

Créée en 1836 pour aider les journaux à mieux se vendre aux masses populaires, la publicité s’impose aujourd’hui comme le mode de financement principal, voire exclusif, des médias à l’ère numérique. Le consommateur accepte avec insouciance cette manne providentielle qui lui permet d’accéder à des contenus. Mais en connaît-il vraiment le prix ? Information altérée au profit d’intérêts économiques, positionnements éditoriaux déterminés par les perspectives de recettes des annonceurs, campagnes véhiculant des stéréotypes sociaux... Parce qu’elle structure de façon incontestée notre inconscient collectif, la publicité est devenue un vecteur non plus seulement de revenus mais de sens... Les médias tendent à se transformer en zélés prédateurs d’une clientèle-proie pour le compte de leurs principaux clients. Des neurosciences au travestissement des contenus, tout est mis en place pour parvenir à cet objectif. Ce livre se propose d’étudier comment l’instrument économique d’une démocratisation de l’information s’est peu à peu mué en outil politique d’une domination économique."

Marie Bénilde

lundi, 30 août 2010

L'ennui et la condition humaine

L’ennui et la condition humaine

par Pierre LE VIGAN

1113852222.jpgLe Magazine littéraire consacrait jadis un dossier à l’ennui (n° 400, juillet – août 2001) sous le titre : « Éloge de l’ennui. Un mal nécessaire ». En d’autres termes, il s’agissait d’une interrogation sur la positivité de l’ennui au travers une enquête sur l’ennui au travers le travail de divers écrivains, notamment Flaubert, Proust, Pascal, Beckett, Moravia, Cioran.

Le point de départ littéraire de la question se justifie. Montaigne relève que l’écriture est un remède contre l’angoisse de lire. La lecture est en effet inséparable de l’ennui. Plus précisément, elle se pratique sur fond de vacuité : sur ce fond sans fond que Flaubert appelle « marinade ». Mais de quel ennui est-il question ? C’est selon. C’est pourquoi une  généalogie de la notion est ici nécessaire.

Sénèque distingue l’ennui du chagrin. Ce dernier a généralement des causes précises, comme la douleur. L’ennui est plus vague et plus insidieux. Dans les Lettres à Lucilius, Sénèque voit bien que l’ennui peut aller avec l’agitation, et donc peut être une « activité oisive » : un divertissement impuissant à guérir de l’ennui. Comme remède à l’ennui, Sénèque propose l’activité qui remplit la vie, mais une activité sans se projeter dans l’avenir, une activité d’ici et pour maintenant. Parmi ces activités peut se situer l’écriture, non pas comme divertissement, non plus comme recherche esthétique (une création qui ne serait pas tout à fait une activité), mais comme art de s’appliquer dans l’effectuation des choses. Comme art, aussi, de gérer son emploi du temps. Car l’ennui, comme état de « plein repos » (Pascal), est le fond de la condition de l’homme. Quand l’homme est en repos, il repose sur quoi ? Sur rien. D’où la nécessité de se détourner du repos – d’un repos comme gouffre, d’un repos sans fatigue qui n’est alors qu’une chute. Corollaire inquiétant : si l’homme ne doit jamais être en repos, ne doit-il jamais faire retour sur soi ? L’état de réflexion serait en lui-même  source d’angoisse, de rupture de l’élan vital, d’acédie et d’ennui. C’est contre cette conception pessimiste – la lucidité inséparable de la dépression – que s’élève le janséniste Nicole. « L’ennui, soutient Nicole, touche l’âme quand elle est privée de cet aliment indispensable que sont pour elle les pensées » (Laurent Thirouin).

Pascal, de son côté, ne considère pas que les divertissements suppriment les côtés positifs de l’ennui que sont le sentiment de la gravité des choses et de la fragilité de notre être dans le monde. La légèreté du divertissement n’est pas une faute : elle protège, et c’est tant mieux, contre l’excès d’angoisse. C’est au fond une  forme de lucidité que de rechercher le divertissement. Il faut savoir « être superficiel par profondeur », comme Nietzsche le disait des Grecs. En d’autres termes, pour Pascal, c’est parce que l’ennui a sa place, mais ne doit avoir rien que sa place, que le divertissement a aussi sa place. Même si le seul vrai divertissement positif, c’est-à-dire le seul remède authentique à l’ennui, devrait venir de l’intérieur, et être la recherche constante du chemin qui mène à Dieu.

Dans la grande réhabilitation d’une nature humaine sans Dieu qu’opèrent les philosophes des Lumières, l’ennui comme péril devient le moteur de la recherche du beau, mais aussi bien du terrifiant que du « sublime » (Burke). Face à l’ennui d’un bonheur possible mais qui n’est jamais gai, l’effusion religieuse, ou amoureuse, ou les deux à la fois, apparaît une voie naturelle. Comme les Anciens, les philosophes des Lumières redécouvrent que la vie ne peut qu’osciller entre une léthargie qui n’est pas sérénité, et une inquiétude qui pousse, au mieux, à l’action pour l’action, au pire à l’agitation. « Vous me mandez que vous vous ennuyez, et moi je vous réponds que j’enrage. Voilà les deux pivots de la vie, de l’insipidité ou du vide », écrit Voltaire. « Ou l’on baille ou l’on est ivre », résume de son côté Diderot.  L’équilibre est ainsi difficile « entre la léthargie et la convulsion » (Sénac de Meilhan).

Le romantisme fait une grande place à l’ennui : « ennui d’exister » chez Senancour, désabusement chez Mme de Staël, « analyse perpétuelle » incapacitante chez Benjamin Constant. De son côté, Chateaubriand donne de l’ennui une interprétation particulière en écrivant : « On habite avec un cœur plein un monde vide; et sans avoir joui de rien, on est désabusé de tout ». L’ennui peut ainsi se nourrir du sentiment de n’être pas né pour le monde tel qu’il est : pas né pour le monde de la Révolution française (Adolphe de Custine), pas né non plus pour le monde de la Restauration et de la France post-napoléonienne et post-héroïque (Julien Sorel).

Au-delà de l’esprit du temps, ou du désaccord avec l’esprit du temps, l’ennui, comme le voit bien Stendhal, est une disposition psychologique, un sentiment profond d’incomplétude, d’impossibilité de saisir et de se saisir. « Notre plus grand ennemi est le temps » explique de son coté Alfred de Vigny. Et c’est de l’usure du temps, de l’usure par  le temps qu’il s’agit dans le romantisme. De fait, quand le temps ne permet pas une mise en tension du présent, ce dernier s’étire à l’infini, dans une durée torpide et Pise. Mais une durée qu’un souffle suffit à soulever. « L’ennui du constamment nouveau, l’ennui de découvrir sous la différence des choses et des idées, la permanente identité de tout, […] l’éternelle concordance de la vie avec elle-même, la stagnation de tout ce que je vis, au premier mouvement tout s’efface » (F. Pessoa, Le livre de l’intranquillité, Christian Bourgois Éditions, 1988). L’action sauve de l’ennui, d’où la supériorité de l’écriture sur la lecture.

Cet ennui qui est presque une figure du mal, voire du péché se trouve telle une « torture morale » (Pierre-Marc de Biasi) chez Baudelaire. L’introspection amène l’homme à se voir lui-même comme « une oasis d’horreur dans un désert d’ennui ». Cet ennui écœuré est tout différent de la sensibilité atmosphérique de Gustave Flaubert. Car c’est la question de l’identité, vue d’une façon très moderne, qui est au cœur non pas de l’ennui flaubertien mais bien plutôt de la mélancolie flaubertienne c’est-à-dire de son extrême et douloureuse attention aux questions du sens. « Quelque chose d’indéfini vous sépare de votre propre personne et vous rive au non – être », écrit-il. Ce « quelque chose d’indéfini », c’est l’énigme de l’« ennui profond » (Heidegger), c’est cette profondeur sans fond qui est l’exister lui-même. L’ennui, ainsi, n’est pas le contraire de la jouissance. Il en est la mesure même. C’est parce que l’ennui menace toujours que la jouissance est possible et qu’elle est nécessaire. Car l’ennui est moins ce qui est  que ce qui éloigne de ce qui est. Il est une fatigue comme prédisposition de l’être. Il est ce qui « suscite le désir de rien » (Jean Roudaut). Mais le désir de rien est encore un désir; c’est l’ennui des bouddhistes : un vide qui manifeste le plein. Un vide qui est volupté.

Tout autre est l’ennui qui vient de la révélation que « tout est déjà fini », que l’adhésion aux choses est précisément la chose la plus difficile du monde. C’est l’ennui de Cioran, l’ennui occidental, ennui d’une civilisation du sujet, et à ce titre un ennui fécond, un ennui qui pousse à l’écriture, comme l’écrit encore Jean Roudaut à propos de Samuel Beckett : « Écrire du coup est bien plus que faire l’exercice intellectuel de la mort, au sens où Montaigne prenait le verbe philosopher. C’est l’habiter ». Telle est l’ambivalence de l’ennui, entre la mélancolie qui ouvre à l’homme un site (il y a une jubilation du spleen), et l’acédie qui est l’expérience extrême de la non-prise, de la déprise sur les choses et sur soi. La modernité aimerait bien nous débarrasser de l’ennui. Mais nous n’avons pas fini de nous ennuyer, c’est-à-dire d’éprouver notre condition humaine.

Pierre Le Vigan


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jeudi, 19 août 2010

Multiculturalisme kent alleen maar verliezers

 
Multiculturalisme kent alleen maar verliezers

O. DELECRUZE - 16 AUGUSTUS 2010


Multiculturalisme dites-vous.jpgLinkse activisten dragen de schuld voor de fouten in het huidige integratiebeleid: sinds lang hebben die ieder debat onmogelijk gemaakt. Maar bovenal was en is het doel van de multiculturele campagnes de vernietiging van het eigene, "tot de overgrote meerderheid weet wat van hen verwacht wordt en de rol speelt die hen is opgelegd."

In Groot Brittannië had de massa-immigratie en daarmee de "multicultuur" als doel "de ziel van de natie te wijzigen," om "het demografische en culturele patroon van het land te veranderen," om door overmacht de verandering in houding te veroorzaken waar de Britse evenknie van de PvdA, Labour, zich de representant van beschouwde. Deze streefde naar "een multiculturele samenleving die zijn eigen geschiedenis zou moeten heroverwegen, en de traditionele trots vervangen door een besef van schuld."

Klootjesvolk

Ook in Nederland is het voorduren van de massa-immigratie zeer aannemelijk een opzettelijk project van de progressieve politiek die volgde op de ontrouw van de wegvluchtende kiezers waar vooral de PvdA eind zestiger mee te kampen had.[1] Volgens de Provo-beweging in die periode had de welvaartsmaatschappij het ontrouwe arbeiderselectoraat "in slaap gesust". De arbeiders waren ontaard tot een "grauwe, gemakzuchtige massa". Van dit "klootjesvolk" hoefde niemand mee iets positiefs te verwachten," schrijft Duco van Weerlee in Wat de provo’s willen.[2] Of in de taal van de Amsterdamse Provo’s:
"Bourgeoisie en voormalig proletariaat zijn samengeklonterd tot een groot grijs klootjesvolk, de misselijk makende middenstand, de torren en lieveheersbeestjes, de spruitjeseters."
Het is even wennen, schrijft Jos van Lans,[3] maar alras stijgt uit dit soort kritiek een groeiende sympathie op voor alles wat afwijkt, wat buiten de grauwe grijze middelmaat treedt. Het boek van Herman Milikowski 'Lof der onaangepastheid' trekt deze radicale kritiek door naar de onmaatschappelijkheidsbestrijding:
"Er treedt een bont palet van sociale bewegingen aan die zich rondom een specifieke identiteit manifesteren: de gekkenbeweging, de kraakbeweging, de milieubeweging, de jongerenbeweging, de vrouwenbeweging, de ene nog radicaler dan de andere."
Het gevolg was dat de uit de hand gelopen massa-immigratie voor de progressieve politiek nooit een issue werd of mocht worden. Alleen bij de grondwetsherziening begin jaren '80 speelde het een bijrol, maar dan alleen om immigranten het stemrecht toe te kennen (voor gemeenteraden), wat zeer lucratief zou zijn voor vooral linkse partijen. Aan de andere kant moest het morrende "klootjesvolk" onder controle gehouden worden. Daarvoor werden vooral begin 90'er jaren, na de val van het communisme, "multicultuur" en "diversiteit" het toneel opgevoerd en konden "de spruitjeseters" (inmiddels aangeduid met "onderbuik"[4]) die zich tegen die multicultuur durfde te uit te spreken ineens inherent als "racisten" bestempeld worden.

Over de moedwillige bevolkingspolitiek
schreef de oud-diplomaat C. van Nispen tot Sevenaer in 2005:
"De massale immigratie is door bepaalde mensen nagestreefd. Terwijl Jacques Wallage fractievoorzitter was van de PvdA in de Tweede Kamer (coalitieregeringen van CDA, PvdA, VVD en D66), zijn onder een zogenaamd restrictief toelatingsbeleid tussen 1990 en 1999 één miljoen honderdertigduizend – legale – immigranten naar Nederland gekomen [CBS] met nu een totaal van 3 miljoen mensen van allochtone afkomst, 20 procent van de Nederlandse bevolking. Wallage, (oud burgemeester van Groningen, recent informateur van het mislukte Paars Plus), zegt: "Wie zijn wij om een eerstgeboorterecht uit te oefenen, hoezo is Nederland voor zijn inwoners? Iedereen heeft recht op dit stukje aarde, waarom zouden wij, toevallige inwoners, daar enig bijzonder recht op doen gelden?"
Multiculturalisme is tweedeling

In het
rapport "De armoedigheid van het multiculturalisme", dat in hetzelfde jaar, 2005, werd uitgebracht door de denktank Civitas, werd geconcludeerd dat het politieke concept "multiculturalisme", raciale scheidslijnen bevordert (ofwel: tweedeling), en mogelijk heeft bijgedragen aan de zelfmoordaanslagen in het Verenigd Koninkrijk. Het rapport bekritiseeert de overtuigde multiculturalisten:
"…die beweren dat geen enkele cultuur is beter dan een andere, maar ook de eersten zijn om te benadrukken dat de westerse cultuur eigenlijk minderwaardig is. Het feit dat de plegers van de zelfmoordaanslagen in Londen geboren en getogen zijn in Groot-Brittannië en door de staat zijn aangemoedigd om anders te zijn, toont aan dat het harde multiculturalisme het niet alleen in zich heeft om verdeeldheid te zaaien maar ook zondermeer dodelijk kan zijn."
In een Franse studie uit 2007, Seculariteit in de Lage Landen? Over hoofddoekjes in een neutrale staat,[5] werd zelfs specifiek gewaarschuwd voor het Nederlandse multiculturalisme: "Wat is er in de ogen van de Fransen mis gegaan met het Nederlandse minderhedenbeleid?" Volgens dit rapport van de Franse Commissie-Stasi uit 2007, maakt de Nederlandse politiek zich schuldig aan een destructieve vorm van multiculturalisme. De typisch Nederlandse zuilen-traditie heeft allochtone groepen aangemoedigd tot zelf-organisatie in gesloten culturele gemeenschappen: "Sinds de jaren zestig is Nederland aan het wegglijden in communitarisme."

Jacqueline Costa, lid van de delegatie van de commissie-Stasi die ter plaatse onderzoek heeft verricht naar de Nederlandse situatie, beweert dat het rapport uit beleefdheid veel te mild is geformuleerd. Naar haar mening zou het accurater zijn geweest om te zeggen dat de integratie in Nederland is uitgelopen tot een complete mislukking:

"De traditionele Nederlandse tolerantie heeft zich tegen zichzelf gekeerd met het bieden van een veilige haven aan islamisten die het als operationele basis gebruiken om de liberale staat van binnenuit op te blazen. Het Rapport Stasi werd sterk beïnvloed door de negatieve bevindingen in Nederland"
Rekening houdend met het feit dat Nederland als afschrikwekkend voorbeeld kan dienen, heeft de Commissie daaropvolgend vastgesteld dat de Nederlandse manier koste wat kost vermeden moest worden. "Deze situatie voedt etnische en religieuze spanningen en doet het anti-semitisme heropleven…"

Terug naar de middeleeuwen

Valentina Colombo in Decepties, Dwalingen en Slachtoffers van het Multiculturalisme
wijst op de verzuiling waar ook het Franse rapport aan refereerde, als voorloper van het multiculturalisme. Die verzuiling had als opzet "een vreedzame samenwerking mogelijk te maken tussen de leiders van de verschillende zuilen, maar met nog grotendeels gescheiden achterbannen" [maar volgens Paul Scheffer, "wel met een algemeen aanvaarde grondwet en kon worden uitgevochten in een en dezelfde taal."] Vandaag de dag echter zou dergelijke verzuiling met verschillende codes en rechtsvormen, zoals de sharia, onvermijdelijk leiden tot een vergaande en gevaarlijke discriminatie van vrouwen: "Het probleem zit in het misplaatste geloof dat deze wandaad uitsluitend iets van- en voor de minder fortuinlijke immigranten zou zijn, en de samenleving als geheel onaangetast zou laten." Multiculturalisten pleiten voor uitbreiding van een pertinent gelijke status voor de verschillende etnische en religieuze groepen, "echter zonder het bevorderen van welke etnische, religieuze of culturele waarden dan ook."

Colombo haalt twee recente door moslimvrouwen geschreven boeken aan die het multiculturalisme definiëren als "een dwaling" en "een deceptie." Der Multikulti-Irrtum, Wie wir in Deutschland besser zusammen leben können ("De Multiculti-dwaling"), gepubliceerd in Duitsland in 2007, geschreven door
Seran Ates, een advocaat die geboren is in Istanbul en getogen in Duitsland; en L'Inganno - Vittime del Multiculturalismo ("De Deceptie, Slachtoffers van Multiculturalisme") dat verscheen in Italië in 2010 en was geschreven door Souad Sbai, een Italiaans parlementslid en journalist, geboren in Marokko, opgegroeid in Duitsland en woonachtig in Italië.

Beide auteurs hebben – op verschillende manieren – met allochtone vrouwen gewerkt. En allebei stellen ze dat het multiculturalisme niet alleen achterhaald is, maar vooral tegen de rechten van de vrouw indruist:
Seyran Ates, die in toenemende mate werd verstikt door haar autoritaire huiselijke omgeving, besloot op haar zeventiende weg te lopen van haar familie. Zij zocht toevlucht in een opvanghuis voor vrouwen, waar ze in een gemeenschap terecht kwam van mishandelde Turkse en Duitse vrouwen. Een gewapende ultra-nationalistische groep Turkse jongeren viel in 1984 de vrouwen in het centrum aan. Ates werd in de keel geschoten en raakte ernstig gewond, een vrouw naast haar werd gedood.
Het kostte Ates vijf jaar om te herstellen van de wonden en het trauma. Na deze aanslag op haar leven besloot ze dat niemand het recht had haar droom om advocaat te worden te vernietigen, en ging zich inzetten voor de rechten van vrouwen. In 2007, na weer een doodsbedreiging, stopte ze met haar werk als advocaat voor Turkse migrantenvrouwen. Maar haar gedrevenheid behield ze: in de hoop de situatie in Duitsland te kunnen veranderen ging ze schrijven. Haar boek, "De Multiculti-dwaling" is een heldere analyse van de situatie in haar land.

Ates beschouwt met name linkse activisten als de schuldigen voor de fouten in het huidige integratiebeleid: sinds lang hebben die ieder debat onmogelijk gemaakt.
Ondanks alles waar linkse activisten zich voor inzetten, stelt Ates dat zij nooit goed hebben gekeken naar wat er werkelijk gaande is binnen de gemeenschappen die zich in Duitsland [en elders in de Westerse wereld] hebben gevestigd. Zij schrijft dat een nadere bestudering van de derde generatie de gevolgen laat zien van waar Duitsland in de afgelopen decennia in is gefaald: een groot deel van haar boek is gewijd aan vrouwen en geweld – gedwongen huwelijken, eerwraak en geweld in het algemeen.

Souad Sbai, een Italiaans parlemenslid die sinds jaar en dag met allochtone vrouwen werkt, beschouwt de situatie van moslimvrouwen in het Westen als het resultaat van het falen van de "multiculturele samenleving" als geheel. Multiculturalisme, volgens Sbai, is een afschuwelijk veelkoppig monster en belichaamt twee van de belangrijkste fenomenen: 1. Het instrumentele gebruik van religie door islamisten om hun politieke doel en de onderwerping van de vrouw na te streven; 2. De afschaffing van de burgerlijke vrijheden en de waardigheid van de mens.

De ondertitel van haar boek, "Slachtoffers van het Multiculturalisme," identificeert het belangrijkste probleem als het resultaat van een juridische en politieke terugtreding, daar waar het gaat om het bevorderen van de universele rechten van de mens en het respecteren van de centrale plaatsing en de onaantastbaarheid van het individu. Hoewel het woord "slachtoffers" hier kan klinken alsof het alleen verwijst naar allochtone vrouwen in het Westen en hun segregatie in een wereld van onnozelheid en geweld, heeft het een universele waarde: De boodschap in haar boek is dat elke persoon, man of vrouw, van welke religie ook, slachtoffer van islamisme en fanatisme kan worden.

Volgens Souad Sbai, is deceptie de blind makende illusie van het multiculturalisme: de weigering om het karakter van een ideologie [islam] en de rampzalige gevolgen ervan te erkennen, maar ook de neiging van mensen om muliculturalisme te verwarren met "iets positiefs."  Deceptie is, zo stelt Souad Sbai, de promotie van abstracte ideeën en ideologieën van mensenrechten en universeel broederschap op zodanige wijze dat ze ironisch genoeg degenereren in een perverse vorm van onverschilligheid en ontkenning van rechten. Deceptie is een juridisch en cultureel relativisme dat de schuldigen vrijpleit en weerloze vrouwen geslagen, verkracht, verbrand, en misbruikt laat.
Colombo eindigt haar artikel met te stellen dat we het niet kunnen toelaten dat vrouwen in het Westen in hun geboorteland gediscrimineerd worden, of, zoals Souad Sbai zegt, "dat vrouwen in het algemeen in Europa worden teruggeleid naar de middeleeuwen". Souad Sbai zegt op haar eigen website:

"Het beginsel van de politieke correctheid vergt een absoluut respect voor de cultuur van niet-westerse volkeren, wat multiculturalisme genoemd wordt. Maar wat als die niet-westerse culturen in hun gedrag geen respect voor vrouwen kennen? (…) Het multiculturalisme kent alleen maar slachtoffers. Slachtoffers als Hina Saleem uit Brescia, de Pakistaanse die door haar vader onthoofd werd en in de tuin begraven "omdat zij zich gedroeg als een christen"; als Bouchra, een Marokkaanse uit Verona, die doodgestoken werd door haar man omdat zij weigerde de sluier te dragen; als Fouzia, de Egyptische uit Milaan die door haar echtgenoot voor de ogen van haar driejarige dochtertje gewurgd werd en vervolgens in een park gedumpt, omdat zij zich westers kleedde; als Fatima Saamali, de Marokkaanse uit Aosta die door haar man werd vermoord omdat zij aan de politie had gerapporteerd dat zij door haar man mishandeld werd…"

Maar het multiculturalisme leidt niet alleen vrouwen terug naar de middeleeuwen. Volgens emeritus hoogleraar Russische en Slavische Studies, Frank Ellis, speelt er ook nog iets anders en is de onmiddellijke context voor het begrijpen van de politieke correctheid en het multiculturalisme, de Sovjet-Unie en haar catastrofale utopische experiment:


Multiculturalisme, voorbode voor de Goelag?

door Frank Ellis
"Omwille van het dagelijks bestaan was het zondermeer noodzakelijk, of soms van belang, om goed na te denken alvorens iets te zeggen; maar een lid van De Partij die benaderd werd voor een politiek of ethisch oordeel, werd geacht in staat te zijn de correcte zienswijzen net zo volautomatisch uit te sproeien als een machinegeweer dat met kogels doet." – George Orwell, "1984".
Er bestaat geen succesvolle samenleving die een spontane neiging tot multiculturalisme of multi-etniciteit kent. Succesvolle en duurzame samenlevingen vertonen een hoge mate van homogeniteit. Degenen die het multiculturalisme voorstaan zijn hier óf niet van op de hoogte, óf – wat waarschijnlijker is – beseffen terdege dat als zij de Westerse samenlevingen willen transformeren tot strikt gereguleerde, etnisch-gefeminiseerde bureaucratieën, ze eerst die samenlevingen zullen moeten saboteren.

Deze transformatie is even radicaal en revolutionair als indertijd het project was om het communisme in de Sovjet-Unie te vestigen. Net als dat ieder aspect van het leven onder politieke controle moest worden gebracht – zodat de commissarissen hun visie aan de samenleving konden opleggen – hopen de multiculturalisten ieder aspect van ons leven te controleren en te domineren. Hoewel hun variant in vergelijking met de genadeloze tirannie van de Sovjets wat softer en milder lijkt, is het wél één waarmee ze ons hopen net zo strak te kunnen houden als een gevangene in de Goelag: de tegenwoordige "politieke correctheid" stamt immers rechtstreeks af van die communistische terreur en -hersenspoeling.

Wat het multiculturalisme – in tegenstelling tot het direct herkenbare vreemde implantaat communisme – bijzonder verraderlijk en moeilijk te bestrijden maakt, is dat het zich de morele en intellectuele infrastructuur van het Westen toeëigent. Hoewel het zich voordoet als een voorvechter van de diepste overtuigingen van het Westen, is het daar in feite een perversie van en breekt het systematisch het hele idee van het Westen af.

Wat wij "politieke correctheid" noemen stamt uit de Sovjet-Unie van de jaren '20 (politicheskaya pravil’nost heette dat in het Russisch), en was de uitwaaiering van de politieke controle naar onderwijs, psychiatrie, ethiek en gedrag. Het was een essentieel element in het streven om alle aspecten van het leven in overeenstemming te brengen met de ideologische orthodoxie (wat het onderscheidend kenmerk is van alle totalitaire regimes). In het post-Stalin-tijdperk betekende politieke correctheid zelfs dat dissidentie werd gezien als het symptoom van een psychische aandoening, waarvoor permanente opsluiting de enige kuur was.

Zoals Mao Tse-Tung, de Grote Roerganger, stelde: "Het niet hebben van een politiek correcte oriëntatie is als het niet hebben van een ziel." Mao's Rode Boekje staat vol met aansporingen om het juiste pad van de communistische gedachte te volgen, en eind jaren '60 had de maoïstische politieke correctheid zich al stevig in de Amerikaanse en Europese universiteiten genesteld. De laatste fase van die ontwikkeling waar we nu sinds ruim twee, drie decennia getuige van zijn, is het resultaat van een kruisbestuiving met de nieuwste "ismen:" anti-racisme, feminisme, structuralisme, post-modernisme [en het opkomende islamisme], die nu de universitaire curricula domineren. Het resultaat is een nieuwe en virulente stam van het totalitarisme, dat duidelijke parallellen heeft met het communistische tijdperk. De hedendaagse dogma's hebben geleid tot rigide eisen met betrekking tot woordgebruik, het denken en het gedrag, en de onwilligen worden behandeld alsof zij mentaal onevenwichtig zijn, net als de Sovjet-dissidenten indertijd.
Matthijs van Nieuwkerk: "U zegt dat mensen die op Wilders stemmen, en dan vooral de mensen die de krant lezen en gezond verstand hebben, want die zijn toerekeningsvatbaar dan blijkbaar."

Maarten van Rossum: "Ik kan me niet voorstellen dat je een gezond verstand hebt en dan op Wilders stemt."

Matthijs van Nieuwkerk: "Maar wat er nu gebeurt is, we hadden hier gisteren Bram Moszkovicz zitten, de advocaat van Geert Wilders… Herman van Veen vergeleek de PVV met de NSB… u zegt nu dat de mensen die op WIlders stemmen zijn niet goed bij hun hoofd."

Maarten van Rossum: "Ja, daar komt het in grote trekken op neer."

Matthijs van Nieuwkerk: "Dus u denkt dat demonisering, want dat woord valt nogal eens de laatste tijd, en Bram Moszkovicz had het er ook weer over, gaat door."

Maarten van Rossum: "Nou, ik zie dat helemaal niet als demonisering, het gaat erom dat vrij makkelijk kan worden aangetoond dat in feite de wereld die, die Wilders aan zijn kiezers aandoet …biedt, dat dat een paranoïde waanwereld is, dat 'ie in feite heel weinig of niets met de werkelijkheid van doen heeft."

Matthijs van Nieuwkerk:  "Maar d'r zijn er meer dan éénmiljoen mensen niet goed bij hun hoofd op dit moment in Nederland."

Maarten van Rossum: "Ik denk dat dat op zichzelf al een vrij conservatieve conclusie is." (publiek lacht).[6]
Er zijn er die gesteld hebben dat het onrechtvaardig is om het regime van Stalin als "totalitair" te kenschetsen, erop wijzend dat één man, hoe genadeloos hij ook de macht uitoefende, onmogelijk alle handelingen van de staat kon controleren. Maar in feite hoefde hij dat ook helemaal niet. Totalitarisme is veel meer dan staatsterreur, censuur en concentratiekampen; totalitarisme is een geestestoestand waarin het idee van een prive-mening of eigen standpunt uitgewist is. De totalitaire propagandist dwingt de mensen om te geloven dat slavernij vrijheid is, vunzigheid een beloning, onwetendheid kennis, en dat een streng gesloten samenleving de meest open samenleving in de wereld is. En zodra ervoor is gezorgd dat genoeg mensen op deze manier zijn gaan denken, is er spake van functioneel totalitairisme: zelfs als een dictator het allemaal niet persoonlijk onder controle heeft.

Tegenwoordig uiteraard, wordt men voorgehouden dat diversiteit winst is, perversiteit een deugd, succes onderdrukking, en dat het keer op keer herhalen van deze ideeën een uitdrukking van "tolerantie" en "diversiteit" is. Inderdaad, de multiculturele revolutie zorgt overal voor subversie, net als de communistische revoluties dat deden: juridisch activisme ondermijnt de rechtsstaat, "tolerantie" ondergraaft de omstandigheden die een echte tolerantie mogelijk maakt; universiteiten – die paradijzen van het waardevrije onderzoek zouden moeten zijn – praktiseren een censuur die dat van de Sovjets naar de kroon steekt. Tegelijkertijd is er een tomeloze drang naar "gelijkheid": de Bijbel, Shakespeare, rap-teksten, zijn simpelweg teksten met "gelijkwaardige perspectieven"; afwijkend en crimineel gedrag is een "alternatieve leefgewoonte" (of "andere cultuur"). Dostojewski's Misdaad en Boete zou vandaag de dag met de titel Criminaliteit en Counseling zijn uitgegeven.

In het communistische tijdperk was de totalitaire staat gebaseerd op geweld. De zuiveringen van de jaren '30 en de Grote Terreur (wat Mao's model voor de Culturele Revolutie werd) pasten geweld toe tegen de "klassevijanden" om loyaliteit af te dwingen. Partijleden tekenden zonder scrupules doodvonnissen voor "vijanden van het volk", met een vanzelfsprekend geloof in de juistheid van de aanklachten, wetende dat de beschuldigden in werkelijkheid onschuldig waren. In de jaren '30, rechtvaardigde de collectieve schuld het vermoorden van miljoenen Russische boeren. Zoals door Robert Conquest aangehaald in The Harvest of Sorrow (p.143), was de visie van de Staat op deze klasse dat:
"…niet één van hen zich schuldig aan iets had gemaakt, maar zij behoorden nu eenmaal tot een klasse die schuldig was aan alles."
Het stigmatiseren van complete instituties en sociale groepen ["spruitjeseters" of de "onderbuik"] maakt het veel gemakkelijker om een grootschalige verandering te bewerkstelligen. Hierin ligt natuurlijk de aantrekkelijkheid van het onderwerp "racisme" en "seksisme" voor de hedendaagse cultuurafbrekers – de zonde kan dan worden uitgestrekt tot ver voorbij het individu, om instellingen, literatuur, taal, geschiedenis, wetten, gebruiken, en complete beschavingen binnen bereik te brengen. De beschuldiging van "institutioneel racisme" [evenals als "xenophobie" en "islamofobie"] is niet anders uit te leggen dan het tot een vijand van het volk verklaren van een complete economische klasse. "Racisme" en "seksisme", de aanvalswapens van het multiculturalisme, zijn Grote Ideeën, net als wat de klassenstrijd betekende voor de communisten; en de gevolgen zijn hetzelfde. Als een misdrijf gecollectiviseerd wordt kan iedereen schuldig zijn, alleen omdat zij tot de verkeerde groep behoren. De jonge autochtonen die het slachtoffer zijn van raciale voorkeuren [van "positieve" discriminatie bijvoorbeeld], zijn de hedendaagse Russische boeren. Zelfs als zij nog nooit eigenhandig iemand onderdrukt hebben, "behoren zij tot het soort dat schuldig is aan alles."

Het doel van deze multiculturele campagnes is de vernietiging van het eigene. De mond beweegt, de juiste gebaren volgen, maar het is de mond en het zijn de gebaren van een zombie, van een nieuwe Sovjet-mens of – zoals tegenwoordig – een Politiek Correcte Mens.[7] Zodra er maar genoeg mensen op deze wijze geconditioneerd zijn, is geweld niet langer noodzakelijk. We bereiken dan het steady-state totalitarisme, waarin de overgrote meerderheid weet wat van hen verwacht wordt en de rol speelt die hen is opgelegd.

Het Russische experiment met de revolutie en totalitaire social engineering is uitvoerig geboekstaafd door twee van de grootste schrijvers van dat land, Fjodor Dostojevski (1821-1881) en Aleksandr Solzjenitsyn (1918-2008). Zij ontleedden op briljante wijze de methoden en psychologie van de totalitaire controle. Dostojewski's De Bezetenen [uit 1872, ook verschenen met de titel Duivels] kent geen gelijke in zijn indringende en verontrustende analyse van revolutionaire en utopische gedachten. De "bezetenen" zijn radicale studenten van de midden-en hogere klassen die flirten met iets wat ze niet begrijpen. De heersende klasse probeert bij hen in de gunst te komen en de universiteiten hebben in wezen de oorlog verklaard aan de samenleving als geheel. De luide roep van de studenten-radicalen is vrijheid: de bevrijding van de gevestigde normen van de samenleving, de bevrijding van de zeden, de bevrijding van ongelijkheid en van het verleden.
Hans Vandeweghe in De Morgen: "De Bezetenen van Fjodor Dostojevski vertelt het verhaal van de terroristische nihilisten van Sergei Nechajev. In zijn roman beschrijft Dostojevski de grotere maatschappij waarin ze actief zijn. Alle slimmerds, van de rechters tot de weldenkende en welvarende dames, staan aan Nechajevs kant. Tijdens het theedrinken fezelen de dames tegen elkaar: 'Prachtig toch wat die kerels willen bereiken. Jammer dat ze niet goed begrepen worden.' Diezelfde houding trof je ook aan in Duitsland tijdens de terreur van de Rote Armee Fraktion. In die periode was ik in Berlijn om research te doen voor mijn doctoraalscriptie. Ik huurde een flat van vage, gefortuneerde kennissen, die zeer sympathiek stonden tegenover de terroristen van de RAF. In de flat onder die van mij hebben ze lange tijd een koppel gehuisvest dat actief was in de Baader-Meinhofgroep. Mijn huisbaas – een kaviaarsocialist – was er erg trots op dat hij dat soort mensen onderdak verleende. In rijke linkse kringen golden RAF-terroristen als een statussymbool…"[8]
Rusland's onderdompeling in moord en krankzinnigheid is een krachtige waarschuwing voor wat er gebeurt wanneer een natie de oorlog verklaart aan het verleden in de hoop een aards paradijs [socialistische heilstaat] op te kunnen bouwen. Dostojevski leefde niet lang genoeg om getuige te zijn van de gruwelen die hij had voorzien, Solzjenitsyn echter maakte ze mee uit eerste hand. "De Goelag Archipel" en "Augustus 1914" kunnen worden gezien als een geschiedenis van ideeën, van pogingen om verslag uit te brengen van het verschrikkelijke lot dat Rusland trof na 1917.

Solzjenitsyn wijst op het onderwijs – op de manier waarop leerkrachten het als hun plicht zagen om een soort van vijandigheid in te prenten tegen iedere vorm van traditionele autoriteit – als de belangrijkste factor die verklaart waarom de jeugd van Rusland werd verleid voor socialistische revolutionaire ideeën. In het Westen gedurende de jaren '60 en '70 – die collectief "de jaren '60" genoemd kunnen worden – zien we een krachtige echo van de collectieve mentale capitulatie die in de jaren '70 van de negentiende eeuw in Rusland plaatsvond, en werd voortgezet in de revolutie (van 1917).
Solzjenitsyn in een lezing in 1978: "Het is vrijwel universeel erkend dat het Westen de hele wereld een manier toont voor succesvolle economische ontwikkeling, hoewel dat in de afgelopen jaren sterk is verstoord door een chaotische inflatie. Veel mensen in het Westen echter zijn niet tevreden met hun eigen samenleving. Zij verachten het, of beschuldigen het niet op het niveau van volkomenheid te zijn dat door de mens bereikt is. Een aantal van zulke critici wenden zich tot het socialisme, wat een valse en gevaarlijke stroming is.

Ik hoop dat niemand hier mij ervan zal verdenken dat mijn persoonlijke kritiek op het Westerse systeem bedoeld is om het socialisme als een alternatief te presenteren. Als iemand die het toegepaste socialisme heeft meegemaakt in een land waar het alternatief gerealiseerd is, zal ik mij er zeker niet voor uitspreken. De bekende Russische wiskundige Shafarevich, lid van de Russische Academie van Wetenschappen, heeft een briljant boek geschreven met de titel Socialisme, een grondige analyse die aantoont dat het socialisme van elk type en soort leidt tot een totale vernietiging van de menselijke geest en tot een nivellering van de mensheid in de dood. Shafarevich's boek werd bijna twee jaar geleden gepubliceerd in Frankrijk en tot nu toe is niemand gevonden die het kon weerleggen." (…)

Het communistische regime in het Oosten kon stand houden en groeien als gevolg van de enthousiaste steun van een enorm aantal westerse intellectuelen die verwantschap voelden en weigerden om de misdaden van het communisme te zien. Toen ze hier niet meer onderuit konden, probeerden ze het te vergoeilijken. In onze Oost-Europese landen heeft het communisme een complete ideologische nederlaag geleden, het is niks en minder dan niks. Maar westerse intellectuelen kijken er nog steeds naar op met belangstelling en empathie…"[9]
Eén van de echo's van het marxisme die vandaag de dag maar blijft nagalmen, is het idee dat waarheid in een klasse zit opgesloten (of geslacht of ras of erotische geaardheid). De waarheid is dan niet iets dat kan worden vastgesteld door rationeel onderzoek, maar is afhankelijk van het perspectief van de spreker. In het multiculturele universum is het perspectief van een persoon "getaxeerd" naar klasse. Feministen en allochtonen bijvoorbeeld hebben een grotere aanspraak op de waarheid, omdat ze "onderdrukt" zouden worden. In de ellende van die "onderdrukking" vinden zij de waarheid eerder dan bij de witte heteroseksuele mannen die hen "onderdrukken". Dit is een perfect spiegelbeeld van de morele en intellectuele superioriteit van het marxistische proletariaat ten opzichte van de bourgeoisie. Tegenwoordig verleent "onderdrukking" een "bevoorrecht perspectief" dat in wezen onfeilbaar is. Om een uitdrukking uit Robert Bork's Naar Gomorra te parafrasereren, zijn etnische minderheden en feministische activisten "gestaald tegen het logische argument" – net zoals de ware communistische gelovigen dat waren.

Inderdaad, feminisme- en anti-racisme-activisten verwerpen openlijk de objectieve waarheid. Ervan overtuigd dat ze hun oppositie geïntimideerd hebben, zijn feministen in staat om allerlei eisen af te dwingen om de veronderstelling dat mannen en vrouwen in alle opzichten gelijk zijn van een waarheid te voorzien. Wanneer de resultaten niet overeenkomen met dat geloof, dienen die alleen maar als nog meer bewijs van de witte, mannelijke kwaadaardigheid.

Wat het meest deprimerend is om te zien in het Westen van vandaag, met name in de universiteiten en in de media, is de bereidheid om het feminisme te propageren als een belangrijke bijdrage aan kennis en zich te onderwerpen aan haar absurditeiten. Opmerkelijk is dat dit geen fysiek geweld vereist. De wens geaccepteerd te worden maakt het dat mens zich slaafs opstelt ten opzichte van deze middenklasse van would-be revolutionairen. Peter Verkhovensky, die moord en doodslag regisseerde in Dostojevski's Duivels, spreekt met bewonderenswaardige minachting: "Alles wat ik hoef te doen is mijn stem verheffen en ze te vertellen dat ze niet links genoeg zijn." Uiteraard spelen de anti-racismeclubs hetzelfde spel: beschuldig een laat-20e eeuwse linksliberaal van "racisme" of "seksisme" en zie hoe hij uiteenvalt in een orgie van zelfkastijding en maoïstische zelfkritiek. Zelfs "conservatieven" krimpen ineen bij het horen van die woorden.

Aloude vrijheden en veronderstellingen van onschuld hebben geen enkele betekenis waar het "racisme" betreft: u bent schuldig tot het tegendeel bewezen is, wat bijna onmogelijk is, en zelfs dan bent u nog altijd verdacht. Een beschuldiging van "racisme" heeft nagenoeg hetzelfde effect als de beschuldiging van hekserij had in het 17e eeuwse Salem.

Het is de kracht van de beschuldiging van "racisme" dat het de hoon smoort die anders zou volgen op het idee dat we de "diversiteit moeten waarderen". Maar als "diversiteit" de autochtonen werkelijk voordeel zou bieden, zouden zij er veel meer van willen, en graag zien dat nog meer steden aan immigranten zouden worden overgedaan. Maar natuurlijk staan zij niet in een rij te dringen om diversiteit en multiculturalisme te omarmen: ze maken dat ze wegkomen in de tegenovergestelde richting. Het aanprijzen van diversiteit is een hobby voor mensen die niet dagelijks met de voordelen ervan geconfronteerd worden.

Een multiculturele samenleving is een samenleving die inherent vatbaar is voor conflicten, niet voor harmonie. Dit is waarom wij een enorme groei in de overheidsbureaucratieën zien die zich wijden aan het oplossen van geschillen die langs etnische en culturele lijnen onstaan. Deze conflicten kunnen nooit definitief worden opgelost omdat de bureaucraten één van de belangrijkste oorzaken ervan ontkennen: ethiciteit. Dit is waarom er zoveel over "multicultureel" gesproken wordt in plaats van het meer precieze "multi-etnisch." Steeds meer veranderingen en wetten worden doorgevoerd om de ontvangende samenleving meer verwant te maken met etnische minderheden. Dit veroorzaakt alleen maar nog meer eisen, en moedigt de ongewapende oorlog tegen de autochtonen aan, tegen hun beschaving, en zelfs tegen het hele idee van het Westen.

Hoe wordt een dergelijk radicaal programma doorgevoerd? De Sovjet-Unie had een enorm censuur-apparaat – de communisten censureerden zelfs stadsplattegronden – en het is vermeldenswaard dat er twee soorten censuur waren: de openlijke censuur door overheidsdiensten, en de meer subtiele zelfcensuur die inwoners van "volksdemocratieën" zich al snel hadden aangeleerd.

De situatie in het Westen is niet zo enkelvoudig. Er is [nog] niet iets dat vergelijkbaar is met Sovjet-achtige overheidscensuur en toch kennen we een opzettelijke onderdrukking van afwijkende meningen. Arthur Jensen, Hans Eysenck, J. Philippe Rushton, Chris Brand, Michael Levin en Glayde Whitney zijn allemaal eind negentiger jaren verketterd voor hun standpunten over etnische kwesties. De zaak van de Canadese professor
Rushton [wiens onderzoek naar intelligentie en raciale verschillen door mensenrechtenactivisten werd veroordeeld als 'racistisch'] was vooral verontrustend omdat zelfs zijn wetenschappelijke werk door de politie werd onderzocht. De poging om hem tot zwijgen te brengen waren gebaseerd op de bepalingen in de Canadese hate speech-wetgeving. Dit is precies het soort intellectuele terreur dat men in de oude Sovjet-Unie kon verwachten. Om het dan toegepast te zien in een land dat er prat op gaat een toonbeeld te zijn van een Westerse liberale democratie, is één van de meest verontrustende uitvloeisels van het multiculturalisme.

Een controlemodus over de publieke opinie die meer omvloerst is dan regelrechte censuur is de huidige obsessie met fictieve rolmodellen. Het feministische en anti-racistische thema wordt voortdurend in films en televisieprogramma's verwerkt, wat een voorbeeld is van Bartold Brecht's stelling dat de marxistische kunstenaar de wereld niet moet zien zoals het is, maar als zoals het zou moeten zijn. Dit is bijna rechtstreeks ontleend aan het Sovjet achtige socialistisch-realisme, met geïdealiseerde voorstellingen van stoere proletariërs die het kapitalistische ongedierte te lijf gaan.

Het multiculturalisme heeft dezelfde ambities als het Sovjet-communisme. Het is absolutistisch in de uitvoerig van haar verschillende agenda's, maar relativeert tegelijkertijd alle gezichtspunten van anderen in zijn aanval op haar vijanden. Het multiculturalisme is een ideologie die een einde maakt aan alle andere ideologieën, en deze totalitaire aspiratie leidt tot twee gevolgen: ten eerste moet het multiculturalisme overal alle oppositie elimineren: er kan en mag geen veilig toevluchtsoord zijn voor dissidenten. Ten tweede moet, zodra het eenmaal vaste grond onder de voeten heeft gekregen, het multiculturele paradijs ten koste van alles verdedigd worden. De socialistische orthodoxie dient dan behouden te blijven met alle middelen die de overheid ter beschikking staat.

Een dergelijke (multiculturele) maatschappij is hard op weg totalitair te worden. Misschien nog niet direct met strafkampen, maar wel met heropvoedingscentra voor die trieste wezens die maar blijven volharden in hun "hegemonische witte-mannen discours." Eerder dan met het harde totalitarisme van de Sovjetstaat, hebben we dan met een mildere variant van doen waar onze geesten worden ingekwartierd door de staat. We zouden dan bevrijd worden van de last van het nadenken en daarom niet in de ketterij van politieke incorrectheid kunnen vervallen.

Als we het multiculturalisme zien als de zoveelste uiting van het 20ste-eeuwse totalitarisme (socialisme, fascisme, nazisme, communisme, enz), kunnen we ons dan troosten met de gedachte dat de Sovjet-Unie toch uiteindelijk ineenstortte? Is het multiculturalisme een fase, een periodieke crisis waar het Westen doorheen moet, of vertegenwoordigt het misschien iets fundamentelers en iets wat onomkeerbaar is?

Ondanks de inspanningen van pro-Sovjet elementen werd het Sovjet-imperium wel degelijk door het Westen als een bedreiging herkend. Het multiculturalisme echter wordt niet op een vergelijkbare wijze als bedreiging gezien. Hierdoor blijven veel van de aannames en doelstellingen van het multiculturalisme zonder weerwoord. Toch zijn er een aantal redenen voor optimisme, bijvoorbeeld de snelheid waarmee de term "politieke correctheid" opgepakt werd. De zichzelf onkwetsbaar achtende radicalen werden hier compleet door verrast, maar dit is slechts een kleine winst.

Op de termijn zal het belangrijkste slagveld van de oorlog tegen het multiculturalisme in de Verenigde Staten zijn. Deze strijd wordt dan waarschijnlijk een langzame, frustrerende uitputtingsslag. Maar als het mislukt, zal de waanzin van het multiculturalisme iets worden waar de witte Amerikanen mee zullen moeten leren leven. Natuurlijk, op een bepaald punt kunnen ze eisen dat er een einde komt aan het gestraft worden voor het falen van andere bevolkingsgroepen. Of, zoals professor Michael Hart in de negentiger jaren betoogde in The Real American Dilemma, zou een deling van de Verenigde Staten plaats kunnen gaan vinden langs etnische lijnen. Wat in de Balkan is gebeurd hoeft zich niet per sé tot dat deel van de wereld te beperken. Hoewel een etnische oorlog niet iets is waar de welgestelde radicalen bewust op aansturen, duwt hun beleid wel die kant op.

Tot dusver heb ik betoogd dat de onmiddellijke context voor het begrijpen van de politieke correctheid en het multiculturalisme, de Sovjet-Unie en haar catastrofale utopische experiment is. En toch is de politiek correcte/multiculturele mentaliteit al veel ouder. In Reflections on the Revolution in France, schetst Edmund Burke een portret van Franse radicalen die nog steeds, 200 jaar nadat hij het schreef, relevant is:
“Ze hebben geen respect voor de wijsheid van anderen, maar kopen dat af met een volle portie vertrouwen in zichzelf. Voor hen is 'omdat het oud is' al voldoende reden om de oude manier waarop de dingen gedaan werden te vernietigen. Ook met betrekking tot het nieuwe maken zij zich in het geheel geen zorgen over de tijd die een aanloop naar haast kost, want tijdsduur is geen kwestie voor diegenen die denken dat er voor hun tijd weinig of niets bereikt was, en die al hun hoop op het nieuwe richten."
Uiteraard staat het multiculturalisme ver af van een oplossing voor etnische of culturele conflicten. Integendeel zelfs: het multiculturalisme is de weg naar een speciaal soort van hel, naar iets wat we eerder gezien hebben in de gruwelijke 20ste eeuw; een hel die de mens — die de rede verlaat en in opstand komt tegen Gods schepping, voor zichzelf en anderen creëërt.
"O, Westerse vrijheidslievende "linkse" denkers! O, linkse vakbondsmensen! O, Amerikaanse, Duitse, Nederlandse en Franse progressieve studenten! Dit alles zal nog steeds niet duidelijk genoeg zijn voor u. Het hele boek is voor u nutteloos geweest. Maar u zult alles meteen begrijpen wanneer u zelf – "met de handen op de rug" – onze Archipel binnenstrompelt."[10]

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Valentina Colombo (PhD) is onderzoeker van de islam, doceert aan de universiteit van Bologna en is Senior Research Fellow aan de IMT school of Advanced Studies in Lucca (Italië), de European Foundation for Democracy (Brussel) en Center for the Liberty in the Middle East (Brussel.Washington). Samen met Gustavo Gozzi is zij de auteur van "Culturele tradities, juridische systemen en de mensenrechten in Middellandse-Zeegebied" (Le edizioni del Mulino, 2003). "Deceits, Mistakes and Victims of Multiculturalism" door Valentia Colombo is gepubliceerd op
Annaqed.

Dr. Frank Ellis is voormalig hoogleraar Russische en Slavische Studies aan de Universiteit van Leeds in Engeland. In 2006 sprak hij zijn steun uit voor de Bell Curve theory, zoals werd beschreven in een boek van Richard Hernnstein en Charles Murray waarin werd geconcludeerd dat etniciteit een rol zou kunnnen spelen in IQ niveaus. Meer dan 500 studenten ondertekenden daarop een petitie waarin geëist werd dat hij zou worden
ontslagen waarna hij vervolgens uit zijn aanstelling werd ontheven. Dit is een vrije veraling van "Multiculturalism and Marxism" dat in 1999 werd gepubliceerd op American Renaissance. Citaten zijn toegevoegd door de vertaler.

[1] Remieg Aerts: "Land van kleine gebaren: een politieke geschiedenis van Nederland, 1780-1990"; p.305: "In 1967, het verkiezingsjaar waarin D66 opeens in de politiek was verschenen, werd de PvdA getroffen door de ontrouw van de zwevende kiezers: met 23,4 procent van de stemmen bereikten de socialisten en dieptpunt. De PvdA-leiding was zwaar aangeslagen door die nederlaag en was daardoor rijp voor en ommezwaai van de partijkoers. Die diende zich aan in de vorm van Nieuw Links. Rond 1970 had deze oppositiegroep vrijwel alle topfuncties binnen de PvdA veroverd"
[2] Duco van Weerlee, "Wat de provo’s willen", De Bezige Bij, Amsterdam 1966, p.25.
"De nieuwe tijd rekent hardhandig af met het burgermansfatsoen dat Nederland tot in de laagste regionen van de samenleving in zijn greep heeft genomen. Of in de taal van de Amsterdamse Provo’s: "Bourgeoisie en voormalig proletariaat zijn samengeklonterd tot een groot grijs klootjesvolk, de misselijk makende middenstand, de torren en lieveheersbeestjes, de spruitjeseters."
[3] Jos van Lans, "Zelfbeschikking of bemoeizorg" (
html)
[4] Max van Weezel, Margalith Kleijwegt "Guusje ter Horst: 'Een opstand van de elite is hard nodig", 7 juli 2009 (VN): "In haar studententijd had je ook "een anti-autoritaire revolte," vertelde ze, maar wel eentje "met inhoud," en "nu zijn het vooral onderbuikgevoelens. Ik heb het over een algemene desavouering van alles wat met autoriteit te maken heeft."
[5] Jean Monnet Working Paper 14/07; Cees Maris 2007, "Laîcité in the Low Countries? On Headscarves in a Neutral State"; p.3 e.v. (
html)
[6]
Citaten Van Nieuwkerk en Van Rossum uit: De Wereld Draait Door (DWDD), VARA, 10 november 2009, Deel 1
[7] Takuan Seiyo in zijn onvolprezen reeks "
Van Mekka naar Atlantis" vergelijkt de Politiek Correcte Mens met "Pods" die uitgroeien tot "Body Snatchers".
[8]
Citaat van nevski-prospekt.blogspot.com; Hans Vandeweghe, De Morgen, 13/12/2008
[9]
Citaat uit: Alexander Solzhenitsyn, "Text of address at Harvard Class Day Afternoon Exercises", 8 juni 1978.
[10]
Citaat uit "De Goelag Archipel" Deel VII, Hoofdstuk 3. ("Nederlandse" toegevoegd)

vendredi, 18 juin 2010

Jean-Pierre Le Goff et l'ultraviolence

barbarie-douce1.jpgJean-Pierre Le Goff et l'ultraviolence

Ex: http://www.lesmanantsduroi.com/

Encore un effort...

Pour remonter aux causes! Mais, c'est un bon début... Autruches de « gauche » ou « matamores  néocons » sans s'étendre sur les adeptes de la vie en « Vert », tous ânonnent d'impossibles réponses face à la violence, joliment appelée « ultraviolence »... L'enfant version « Rousseau » ou l'enfant-cible consommateur direct ou indirect, est devenu un parfait tyran. Si les causes profondes ne sont pas encore abordées, Jean-Pierre Le Goff, sociologue, entrouvre la porte... C'est un bon début...

Nous ne manquerons pas de poursuivre...

Mais notre société est amnésique en toute chose.

Ultraviolence? Il serait plus juste de dire barbarie. Et face à la barbarie les réponses ne sont pas de la même nature que face à la violence...

Portemont, le 15 juin 2010

Jean-Pierre_Le_Goff.jpg

J.P. Legoff : « l'ultraviolence est stimulée par l'angélisme éducatif »

Cette semaine Marianne consacre un dossier sur l'ultraviolence. Pour Jean-Pierre Le Goff, sociologue, le discours gentillet des élites éducatives sur la jeunesse favorise l'émergence d'enfants persuadés de leur toute puissance. Conjuguée avec la précarité accélérée par la crise et l'effondrement de la cellule familiale ce phénomène joue un rôle dans la montée des actes de barbarie et d'ultra-violence.

Marianne : Comment expliquez-vous cette multiplication, notamment chez les adolescents, d’actes ultraviolents sans motifs crapuleux ?

Jean-Pierre Le Goff : La stupeur de certains commentateurs m’étonne. Depuis des années, une partie de nos élites s’est enfermée dans une « bulle » qui se rêve pacifiée et hygiéniste, un mixte d’angélisme et de cécité niant ces phénomènes avec un discours gentillet sur la jeunesse, nourri par l’idée que tout est affaire de conditions économiques et sociales… Il faut rompre avec cette illusion d’une extériorité du mal à la personne humaine, comme si toute pulsion d’agressivité n’était qu’un pur produit des conditions sociales et d’institutions défectueuses et qu’il suffirait donc de les changer pour que s’institue le « meilleur des mondes ». Un gauchisme post-soixante-huitard a triomphé par étapes dans la gauche française, conduisant une bonne partie de celle-ci à rompre avec l’anthropologie républicaine traditionnelle — mais aussi juive et chrétienne — marquée par une vision beaucoup plus réaliste de l’homme.

Au profit de quelle vision ?

J.-P. Le G. : Un refus, d’abord, de tout jugement qui, de près ou de loin, rappellerait la morale. L’euphémisme et la victimisation se sont tellement répandus que les agresseurs eux-mêmes sont avant tout considérés comme des victimes. Jean-Pierre Chevènement avait suscité un tollé en évoquant les « sauvageons », formule plutôt empreinte de mansuétude – en jardinage un sauvageon est une plante qui a grandi sans tuteur —, mais qui heurtait cette gauche bien-pensante pour qui l’autorité reste synonyme de domination et qui se refuse à assumer les fonctions répressives nécessaires à toute vie collective.

Vous suggérez donc que l’ultraviolence revient d’autant plus sur le devant de la scène que sa possibilité a été obstinément niée dans l’éducation ?

J.-P. Le G. : L’enfance et la jeunesse ont été érigées en de purs moments d’innocence et idéalisées au nom d’un épanouissement individuel qu’il ne faut pas contrarier. Les nouvelles couches moyennes ont promu l’idée d’une créativité enfantine qu’il faut laisser s’exprimer en libérant les enfants des carcans contraignants du passé. Ce modèle éducatif prohibant toute expression d’agressivité favorise le sentiment de toute—puissance chez les enfants. Parce qu’on refuse de reconnaître cette part sauvage, on décrète qu’elle n’existe pas ou que de gentils pédagogues et psychologues peuvent la faire disparaître en douceur grâce à leurs boîtes à outils. En n’assumant plus leur rôle d’autorité, des adultes et des institutions ont placé certains jeunes dans des situations paradoxales des plus déstabilisantes.

Cette « lame de fond » culturelle nous empêcherait ainsi de comprendre ces phénomènes d’ultraviolence ?

J.-P. Le G. : En donnant une idée déformée de l’humain, elle empêche de bien saisir l’ampleur et l’intensité de la déstructuration identitaire qui s’est amorcée depuis les années 1970. S’il est vrai que les crimes et les passages à l’acte violents ont existé de tout temps, le caractère inédit des actuelles montées aux extrêmes, accompagnées d’une sauvagerie qu’on croyait révolue, devrait nous faire réfléchir. Car deux phénomènes inquiétants n’ont cessé d’additionner leurs effets : d’une part le chômage de masse et le développement de la précarité, d’autre part la dislocation de la structure familiale, gentiment rebaptisée « famille recomposée ». Là aussi, une -gauche moderniste a le plus grand mal à affronter, par peur de ringardise, le rôle essentiel de structuration joué par la famille. -Combinés l’une avec l’autre, la précarité socioéconomique et l’effondrement de la cellule familiale produisent des effets puissants de déstructuration anthropologique qui rendent possibles ces actes de violence non maîtrisés.

Le travail, pour vous comme pour Freud, c’est le principe de réalité…

J.-P. Le G. : Il permet, en effet, la confrontation avec la limite du possible et il est une condition essentielle de l’estime de soi par le fait de se sentir utile 
à la -collectivité et de pouvoir être autonome en gagnant sa vie. L’exclusion du travail de catégories sociales de plus en plus massives au nom d’une compétitivité mondialisée est tout à la fois un problème social et anthropologique qui lamine l’ethos commun. Cette dimension est quasi absente de la plupart des discours politiques alors qu’elle est essentielle pour notre vie collective.

Mais pourquoi cette violence s’exprime-t-elle si facilement ?

J.-P. Le G. : Dans les anciens villages et les bourgs, les quartiers, les cités -ouvrières, tout le monde connaissait tout le monde. Les relations sociales étaient souvent marquées par une grande âpreté des relations, mais prévalaient une solidarité et une régulation sociale minimales par les habitants eux-mêmes. Des drames survenaient, mais les débordements de violence étaient maintes fois jugulés par la collectivité imprégnée d’une morale commune : « Il y a des choses qui ne se font pas »…

Dans le passé, les bagarres n’étaient pourtant pas rares ?

J.-P. Le G. : Non, mais il s’agissait d’une tolérance vis-à-vis d’une violence qui elle-même flirtait avec la limite, surtout quand elle venait des jeunes générations qu’on ne considérait pas alors comme des adultes avant l’heure : « Il faut bien que jeunesse se passe. » Cette brutalité était ritualisée et pouvait être canalisée par les jeux, le sport et le service militaire qui, avec le travail, constituait une étape clé du passage à l’âge adulte pour les garçons, contraints à renoncer à leurs fantasmes de toute-puissance infantile. Aujourd’hui, toutes les manifestations d’agressivité sont vues comme le signe d’une montée aux extrêmes -pathologique qu’il faut soumettre au tamis de l’expertise psychoclinique, tandis que des « cellules psychologiques » servent tant bien que mal de palliatifs aux victimes des agressions. Misère d’une époque où l’on répond par l’éthique du « care » à la désintégration des liens sociaux élémentaires !

Récemment, une étudiante qui avait fait une queue-de-poisson en voiture fut pourchassée et violée par sa « victime ». Que révèle ce type de comportement ?

J.-P. Le G. : Des actes involontaires ou anodins peuvent aujourd’hui être interprétés comme le signe d’un « irrespect », d’une insulte ou d’une agression insupportable, provoquant un déchaînement de violence sans pareil. Au-delà de cet exemple, que je me garderai de commenter, ces criminels me semblent être sous l’empire de leurs affects et de leurs pulsions : la moindre remarque, le -moindre geste mettent le feu aux poudres et font basculer leur destin. Ils deviennent meurtriers, si l’on peut dire, par « inadvertance », incapables de mesurer la gravité de leurs actes, quitte à dire qu’ils ne l’ont « pas fait exprès ». Le moindre regard peut provoquer une montée aux extrêmes parce qu’il ravive des blessures et des humiliations passées, des fragilités internes insupportables, inassimilables. L’image dévalorisée de soi-même, la haine de soi, se décharge sur l’autre, avant parfois de se retourner contre soi. Ils ont « la haine ». Et n’oublions pas non plus le sentiment de toute-puissance que peut procurer la domination ou la destruction de l’autre. Certains peuvent y prendre goût.

Que faire alors face à cette ultraviolence ? S’occuper des parents ?

J.-P. Le G. : Je suis tenté de reprendre la remarque sceptique d’un psychiatre, qui travaille sur ces cas extrêmes et explique qu’on a aujourd’hui souvent affaire à « des bébés qui font des bébés », avec des déstructurations familiales que les psychiatres ont le plus grand mal à traiter. Je ne crois pas plus aux discours éducatifs et normatifs parce que, dans bien des cas, ceux-ci ne peuvent tout simplement pas être compris et encore moins assimilés.

Qu’est-ce qui distingue votre analyse pessimiste des discours de la droite ultrasécuritaire ?

J.-P. Le G. : Une différence élémentaire : ce « tout sécuritaire » de droite n’est que le symétrique inversé de l’angélisme d’une certaine gauche. Toutes deux ne savent plus comment s’attaquer aux conditions sociales qui rendent possibles ces violences. Et l’opposition entre répression et prévention est le type même du faux débat : le maintien nécessaire de la sécurité publique ne peut remplacer une réflexion de fond sur les causes de ces phénomènes. Si la reconstruction problématique d’un éthos commun ne se décrète pas, il devrait être envisagé dans une optique dépassant les clivages idéologiques et partisans, dans la mesure où il engage notre responsabilité -collective.

Mardi 1 Juin 2010 Frédéric Ploquin et Alexis Lacroix - M arianne
Source : http://www.marianne2.fr

 

mardi, 08 juin 2010

Krisen-Vernebelung

Claus M. Wolfschlag / http://www.sezession.de/ :

Krisen-Vernebelung

krise.jpgDie heraufziehende Wirtschaftskrise, die auch eine Systemkrise werden wird, bringt Bewegung in die politische Szenerie. Leute im eigenen Bekanntenkreis, denen bis vor kurzem keine noch so gewichtig vorgetragene Warnung das Wässerchen ihrer Gewißheit vom ewigen Wohlstand und sicheren Fortbestand unserer Gesellschaftsform, vom „unumkehrbaren“ Prozeß der EU-Einigung trüben konnte, fangen auf einmal an, nachdenklich zu werden.

Von drohenden Aufständen und Bürgerkrieg ist auf einmal die Rede, und daß alles noch so unheimlich ruhig sei hier und erst recht in Griechenland. Ein anderes Zeichen für die beginnende Unruhe sind die hektischen Reformversuche und wirr wirkenden Ideen aus dem Bereich der alten Nomenklatura, mit denen man die überkommenen Zustände zu retten versucht.

In den Niederlanden sind nun Vertreter der linksliberalen Führungseliten mit dem Vorschlag vorgeprescht, sämtliche Drogen zu legalisieren, also nicht nur Cannabis, sondern auch den Verkauf von Kokain und Heroin zu erlauben. Dies ist eine ohnehin alte Position in der kontroversen Diskussion vom Umgang mit den harten Drogen. So vertreten Linksliberale eher die Auffassung, diese Drogen zu legalisieren, um dadurch der Mafia den Boden zu entziehen, zugleich sauberen Stoff unter die Konsumenten zu bringen, der weniger Krankheitsrisiken birgt, und durch eine den Herstellungskosten angemessene Preispolitik die Beschaffungskriminalität und soziale Verelendung Süchtiger zu verhindern.

Konservative hingegen befürchten tendenziell mit einer Legalisierung ein Anwachsen der Sucht nach harten Drogen, gerade unter Jugendlichen, die nun weitaus leichter angefixt werden, also den Weg in den Einstieg finden können – mit allen Folgen auch für das Sozialgefüge und die Wirtschaftsleistung des Landes. Von der seelischen Verfassung der Menschen ganz abgesehen.

In den Niederlanden hat der Vorstoß allerdings einen aktuellen Aufhänger. Die Linksliberalen erklären, daß sie sich von einer Legalisierung mit einhergehender Besteuerung der Drogen ein sattes Mehr an staatlichen Einnahmen versprechen. Statt 15 Milliarden Euro jährlich durch die Schäden der Beschaffungskriminalität und die aufwendige Drogenfahndung zu verlieren, würde der Staat nun ein finanzielles Plus aus dem Konsum von Kokain und Heroin ziehen.

Das ist natürlich eine moralisch heikle Position. Der Staat verdient an der Sucht seiner Bürger. Doch steht diese nicht in der Tradition staatlicher Doppelmoral, auch hierzulande? Einerseits verbietet der Staat das Rauchen innerhalb von Gaststättenräumlichkeiten (ein Verbot, das zumindest für kleinere Eckbars, die existentiell bedroht waren, wieder gelockert wurde), andererseits fährt er satte Gewinne aus der Tabaksteuer ein. Ähnliches gilt für die Steuer auf alkoholische Getränke, während es im Gegenzug immer mal wieder politische Vorstöße gibt, deren Werbung weitgehend zu verbieten. Man könnte auch die Mineralölsteuer anführen, die keinesfalls vorrangig für ökologische Ausgleichsprojekte verwendet wird.

Fazit: Der Staat verdient kräftig mit an den Sünden, die von der Politik offiziell und oft so gerne – und manchmal ausgesprochen penetrant – angemahnt werden. Insofern wäre eine – natürlich „kritisch“ und „aufklärerisch“ begleitete – Drogenfreigabe bei gleichzeitiger Besteuerung eine logische Konsequenz.

Doch der niederländische Vorstoß könnte noch einen dritten Grund neben der Suche nach Finanzquellen und der Hoffnung auf Verwirklichung alter linksliberaler Positionen haben. Drogen lenken ab. Sie beeinträchtigen das Denken, das klare Erkennen der Wirklichkeit und das Reagieren darauf. Wer im Heroinrausch den Abend auf der Couch vergammelt, stellt keine unbequemen Fragen mehr, er sorgt sich nicht um seine Zukunft, er entwickelt keine politische Aktivität, die den herrschenden Eliten bedrohlich werden könnte. Ein Schuß nur, und die Verhältnisse bekommen eine rosarote Farbe. Was kann den Linksliberalen lieber sein? Schließlich mühen sich ihre Vertreter in den Interviews und Talkshows der TV-Kanäle fast täglich damit ab, gerade diesen Eindruck bei den glotzenden Zuschauern zu hinterlassen: „Es wird schon, lehnt Euch zurück, Schmetterlinge werden Eure Nasenspitzen kitzeln, wenn der nächste Aufschwung kommt…“ Doch die Droge Fernsehen könnte langsam ihre Wirkung verlieren. Warum dann nicht härtere Bandagen zulassen?

Das erinnert ein wenig an ein Motiv in Joss Whedons Science-Fiction-Action-Film „Serenity – Flucht in neue Welten“ (2005). Eine Regierung hat darin an der Bevölkerung eine drogenähnliche Substanz namens Pax (lat. Friede) getestet, mit der die Planetenbewohner beruhigt und soziale Aggressionen unterdrückt werden sollten. Bei den meisten Leuten funktierte das Experiment offenbar. Sie hörten mit allen Aktivitäten des täglichen Lebens auf, vergaßen sogar die Nahrungsaufnahme, und verhungerten einfach. Bei einer Minderheit allerdings führte das Ganze zum Gegenteil. Sie wurden so etwas wie U-Bahn-Messerstecher im Dauerrausch.

Der Rausch, die Vernebelung trifft auch auf ein weit verbreitetes Bedürfnis in unserer hiesigen Bevölkerung. Die Ablenkung, die Verdrängung scheint seit jeher ein allgemeingültiges Verhaltensmuster. Das Absacken beim Feierabendbier auf der Couch, die Fußballübertragungen und Fernsehserien, die ewig gleichen täglichen Spaziergänge mit dem Hund, dem wir Fürsorge entgegenbringen wollen und mit dem wir Liebe simulieren, die unendliche Musikkulisse in den Bekleidungsläden, die „Promi“-Geschwätzigkeit in den Boulevardmedien, das Handy-Display, der zur Routine gewordene Smalltalk mit den immer gleichen Denkschablonen. All diese unbewußt vollzogenen Handlungen können doch so hervorragend der Ablenkung von uns dienen, unseren Seelen, unseren Lebensumständen. Nur nicht nachdenken, nur nicht weiterentwickeln, scheint die Devise. Und all dies dient dadurch auch denjenigen, die daran verdienen. Die harten Drogen wären demnach nur noch die Spitze des Eisbergs jener riesigen abstumpfenden Entertainmentbeschallung, die in unsere Leben hineinwirkt und der wir uns auch gar nicht vollends entziehen können oder wollen.

dimanche, 16 mai 2010

Omar Ba: "N'émigrez pas!"

N'émigrez pas !

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Une prise de conscience africaine du caractère néfaste de l'émigration : c'est tout l'intérêt du livre d'Omar Ba, N'émigrez pas ! L'Europe est un mythe, que les éditions Jean-Claude Gawsewitch viennent de publier. Bousculant le politiquement correct, il rejoint, à partir d'un point de vue différent, les analyses des observateurs les plus lucides de l'immigration en Europe. Alain de Benoist, dans un éditorial de la revue Eléments, écrivait déjà en 1983 : "L'immigration est née de l'obligation faite à des hommes de se déraciner, par un système économique désireux de faire appel à une main d'oeuvre bon marché, système fondé sur le profit qui transfère les hommes comme on transfère les marchandises ou les capitaux. Fruit de l'idéologie de la rentabilité (à courte vue), elle est une forme moderne de déportation et d'esclavage."

Omar Ba.jpg
 

"Après le succès de "Je suis venu, j’ai vu, je n’y crois plus" (plus de 10 000 exemplaires), Omar Ba nous livre un texte percutant sur l’immigration, un sujet brûlant. Omar Ba affirme que les Africains qui quittent tout pour venir en Europe perdent au change. Leur avenir est sur le continent noir. L’immigration contribue à maintenir les populations africaines en position d’assistanat. De plus, les populations immigrées sont plus touchées par le chômage : l’Europe a-t-elle besoin de l’immigration ? Les immigrés sont « conviés à la misère ». Omar Ba est contre les régularisations massives des sans-papiers, qui vont pousser de nombreux autres Africains à quitter leurs pays d’origine pour l’Europe en leur donnant de l’espoir, mais qui vont aussi priver les pays d’Afrique de leurs ressortissants. Au sujet des expulsions, il s’agit d’une sanction juridiquement approuvée par la Cour Européenne des Droits de l’Homme, cela ne devrait pas provoquer autant de remous. Pour Omar Ba,l’opinion publique choisit l’émotion (cas du renvoi des Afghans en décembre 2009). « Parfois il est salutaire de raccompagner l’étranger dans son pays », selon lui. Les conditions socio-économiques se dégradent dans les pays du Nord, qui ne peuvent donc plus accueillir. Mais selon Omar Ba, l’immigration ne doit pas être associée au racisme, c’est un problème socio-économique, à ne pas « racialiser » (ex : la chasse aux Camerounais exercée en Guinée Equatoriale en mars 2004, où on a vu « des Noirs s’en prendre à d’autres »)… Un texte à contre-courant des idées « bien-pensantes » sur l’immigration, le point de vue surprenant d’un immigré africain de 27 ans."

lundi, 03 mai 2010

The Eclipse of the Normal

The Eclipse of the Normal

by Joe Sobran

jeudi, 08 avril 2010

über die Mechanismen der Medienmanipulation

Weg mit der Schweigespirale!

Über die Mechanismen der Medienmanipulation

Eva Herman / http://info.kopp-verlag.de/

Wie ehrlich kann man heute noch sein? Was darf man noch ungestraft sagen? Kann jeder gefahrlos seine eigene Meinung, abseits des Mainstream, äußern? Werden wir immer sachlich von den Medien unterrichtet und informiert? Nein! Ganz sicher nicht!

singes.jpgDie Pionierin der Meinungsforschung, Elisabeth Noelle-Neuman (vor wenigen Tagen 93-jährig gestorben), wusste über das Thema Meinungsfreiheit theoretisch viel zu sagen, mehr übrigens, als sie selbst es häufig praktisch umzusetzen wagte. Ihre Vorliebe für die Mächtigen hat sich bis heute in ihrem Meinungsforschungsinstitut »Demoskopie Allensbach« erhalten, was einige Beispiele gleich zeigen werden. So galt sie als enge Vertraute der meist konservativen Polit-Elite: Mit Adenauer trank sie Tee, Kohl verehrte sie und pflegte einen jahrelangen »Beratungskontakt«. Vielleicht gerade durch diese nicht unerheblichen Verflechtungen konnte sie genau erkennen, wohin zu viel Macht und Einfluss führen können: in die sogenannte »Schweigespirale«, deren Begriff sie schließlich erschuf und prägte! Schweigespirale? Was ist das denn? Und wo gibt’s die? Überall! Und zunehmend mehr! Sie hat die Menschen fest im Griff, diese Schweigespirale. Ihre Existenz allein beweist, dass sich viele Menschen im Lande ihre Meinung nicht auszusprechen getrauen, aus Angst, ausgelacht und ausgegrenzt zu werden. Es ist an der Zeit, offen über die Meinungsfreiheit als eine der wichtigsten gesellschaftspolitischen Forderungen zu diskutieren, diese endlich mit allen Mitteln einzufordern und die Schweigespirale zu zerstören!

Die Begriffserschafferin Noelle-Neumann, die jegliche Manipulationsmechanismen aus dem FF kannte und nicht selten nutzte, definierte einmal selbst, die Schweigespirale führe dazu, dass ein politisches Lager oder eine öffentliche Mehrheit sich für schwach erklärt und immer mehr verstummt, während das andere, durchaus kleinere Lager Oberwasser bekommt und siegesgewiss auftritt. Die Frage muss hier lauten: Durch was und wen bekommt denn die andere Seite eigentlich Oberwasser? Natürlich durch Einfluss und Macht! Welche gesellschaftliche Gruppe besitzt diese Macht? Zum Beispiel die Politik, deren Verbindung und Einfluss auf die Medien nicht unerheblich ist! Ein gut organisiertes Netz funktioniert doch hier seit vielen Jahren bestens. Zu wessen Vorteil? Sicher nicht zu dem der Bürger.

Kommt einem irgendwie bekannt vor, oder? Die angebliche bundesdeutsche Meinungsfreiheit und Demokratie ist vielerorts zu einer fast alles beherrschenden »Mediokratie« verkommen. Was nicht in den »Mainstream«, nicht in die politisch gedachten Vorgaben, was nicht in das globalisierte, modernisierte, feminisierte und »fortschrittliche« Weltbild passt, wird oft lächerlich gemacht, zerredet und vernichtet: als Verschwörungstheorie, als politisch Unkorrektes! Manchmal werden dazu Methoden benutzt, die nicht nur allein dem Ansehen jener »Störer« schaden, sondern ihnen oft schwere persönliche, wirtschaftliche und berufliche Nachteile bringen, sie nicht selten gar sozial und öffentlich erledigen und vernichten. Jene Menschen, die anderer Meinung sind als die der politisch und medial hergestellten, angeblichen »Mehrheit«, die aber in Wirklichkeit einer »Mini-Größe« entsprechen und lediglich künstlich aufgeblasen werden durch mediale Machtpositionen, ziehen sich zurück und verstummen, um nicht verspottet zu werden. Dass zu den enttäuscht Schweigenden inzwischen längst eine ganze Reihe von einst unabhängigen Journalisten gehört, die ihre »Einzelmeinung« medial kaum noch umzusetzen in der Lage sind, ist kein Geheimnis mehr. Sie fürchten um ihre Reputation und um ihren Arbeitsplatz!

»Wer sieht, dass seine Meinung an Boden verliert, verfällt in Schweigen«, schrieb Noelle-Neumann einmal. So entstünden verzerrte Mehrheits- und Stärkeverhältnisse in öffentlichen Debatten oder auch bei Wahlen, da sich eine schweigende Minder- oder gar Mehrheit einer vermeintlichen Mehrheitsmeinung (oft die der links-liberalen Medien) anpasse, aus der Furcht heraus, isoliert zu werden. Der links-liberalen Medien? Wo sind die denn? Sie sind inzwischen überall! Oder wer von den sogenannten Journalisten fällt heute noch durch konservative Werte-Berichterstattung und ihre Einforderung auf?

Kritiker warfen Noelle-Neumann und ihrem Meinungsforschungsinstitut »Demoskopie Allensbach« übrigens nicht selten »Vetterleswirtschaft« mit der jeweiligen Regierung und ihren Parteien vor, zu denen Manipulation und Suggestion von Meinungen gehört. Aha? Interessant. Diese Frau war immerhin die deutsche Erfinderin der Wahlprognosen und Meinungsumfragen. Noch heute arbeiten die meisten Berliner Bundesministerien mit dem Allensbacher »Haus«-Institut am Bodensee zusammen. Und nicht selten fallen die von den politischen Einrichtungen beauftragten Umfragen überraschenderweise anders aus als jene von den meisten übrigen Instituten. Komisch, oder?

Hier einige Beispiele über merkwürdige Widersprüche in unterschiedlichen Studien zum Thema »Familie – ein Auslaufmodell?« anlässlich einer verstärkten Diskussion im Zeitraum 2006 bis 2009 über die Frage, ob die klassische Familie ausgedient habe und dem neuen, globalisierten Bild der erwerbstätigen Frau, des fremdbetreuten Kindes und dem Haushalt führenden Mann etwa gewichen sei:

Eine EU-Studie über »Werteorientierungen« in europäischen Ländern, über die die Weltwoche im Mai 2007 ausführlich berichtete, ergab, dass die Familie bei den Befragten beinahe ohne Ausnahme zu alleroberst steht, vor allen anderen Beurteilungen wie Arbeit, Freunde, Freizeit, Partnerschaft, Religion und Politik. Bevorzugt wurde in den Ergebnissen das Zusammensein der Mütter mit ihren Kleinstkindern, anstatt sie in die Fremdbetreuung zu geben. Selbst die Akademiker, denen man diese Gesinnung eher nicht unterstellen würde, die bekanntermaßen später heiraten und weniger Kinder bekommen, äußerten sich bei dieser Studie ausgesprochen positiv zum klassischen Familienbild. Eine andere Untersuchung, die des Österreichischen Instituts für Familienforschung, ergab im etwa gleichen Zeitraum ein ähnliches Ergebnis: Nämlich dass die politisch vorangetriebene Außerhausbetreuung von Kleinkindern auf keine großen Sympathien in diesem Land stößt. Nur sechs Prozent aller Befragten sprachen sich dafür aus, jedoch über 70 Prozent nannten sich selbst oder den Partner als ideale Bezugsperson für ihre Kleinsten.

Umfragen des »Generationen-Barometer 06« korrigierten das Bild von der Familie als Auslaufmodell ebenfalls. 84 Prozent der Befragten bezeichneten laut Institut für Demoskopie Allensbach (Noelle-Neumann) den Zusammenhalt in ihrem engeren Familienkreis als »stark« oder sogar als »sehr stark«. Noch mehr Anlass zur Irritation boten die Ergebnisse des Mikrozensus 2005, nach denen in Deutschland neun von zehn Paaren Ehepaare und drei Viertel aller deutschen Familien traditionelle »Vater-Mutter-Kind-Familien« waren.

Die Universität Hohenheim bei Stuttgart führte eine Untersuchung durch, bei der knapp 94 Prozent der Befragten sich eine Familie wünschten. Geborgenheit und Rückhalt brachten sie mit dieser Lebensform in Verbindung. Auch die gewünschte Kinderzahl lässt aufhorchen: 2,4 Kinder, also eins mehr als der deutsche Durchschnitt, so ergab die Untersuchung, seien das Traumziel der jungen Akademiker. Überraschend auch die Aussage, dass sie zwar alternative Lebensformen akzeptierten, für sich selbst jedoch das klassische Familienbild anstreben. Und auch die Bereitschaft, Karrierepläne, persönliche Freiheiten und sogar das Einkommen einzuschränken zugunsten von eigenen Kindern, war erstaunlich hoch: Auf einer Skala von eins bis fünf lag der Durchschnittswert bei 3,9.

»Eine Emanzipation der Emanzipationsbewegung«, so nannte die Schweizer Weltwoche angesichts dieser Zahlen denn auch den neuen Zeitgeist: »Nach Jahrzehnten der Abwertung, die ironischerweise durch die Frauenrechtsbewegung mit verursacht wurde, treten Hausfrauen mit neuem Selbstbewusstsein auf. Sie werben für die Attraktivität eines Berufs, den sie aus eigenen Stücken gewählt haben.« Es wurde offensichtlich, dass es eine große Kluft zwischen guten Erfahrungen in der eigenen Familie und dem schlechten, öffentlichen Image dieser Institution gab. Auch wenn bereits seit einiger Zeit ein Rückgang der klassischen Familie zu beobachten war, zumindest, was die Zahlen angeht, so war und ist die Qualität und die soziale Leistung der großen Mehrheit der Familien bei Weitem unterbewertet. Es gilt somit gestern wie heute: Familie ist besser als ihr Ruf. Was also veranlasst die Politiker anzunehmen, dass die traditionelle Familie passé sei? Nun, Gründe dafür gibt es genug: Internationale Programme wie Gender Mainstreaming, die EU-Vorgaben wie den massiven Krippenausbau in den EU-Ländern zur Folge haben, Geldnöte etc.

Jetzt könnte man also bereits verlässlich feststellen, dass ein erheblicher Unterschied zwischen der politischen und medialen Forderung nach mehr Fremdbetreuung und Erwerbstätigkeit der Frau einerseits, und dem Wunsch der Menschen im Lande andererseits nach Familienzusammenhalt und mehr gemeinsamer Zeit füreinander besteht. Fazit: Man muss nach Kompromissen, nach einem fairen Dialog suchen. Doch was passiert? Wenn sich ganz offensichtlich die überwiegende Haltung der Menschen im Lande eindeutig für die Familie zeigt, gibt es plötzlich immer wieder andere Umfragen, die erstaunlicherweise überraschend ein völlig gegenteiliges Ergebnis erbringen können. Die Verwirrung ist dann groß, denn es erscheint geradezu grotesk, dass heute der überwiegende Teil der Bevölkerung gegen Krippen, morgen jedoch dafür sein soll.

So geschehen Anfang März 2007 durch, ja, durch wen? Durch eine Umfrage des Instituts für Demoskopie Allensbach, jenes Unternehmens, das von Frau Noelle-Neumann gegründet und von jeher von Kennern als durchaus regierungsfreundlich eingeordnet wird. Hier ergab es sich nach all den genannten Umfragen, die sich positiv über Familie aussprachen, plötzlich, dass fast drei Viertel der Befragten sich nun dagegen und für den Ausbau von Kinderkrippen aussprachen. Fünf Tage zuvor hatte das Familiennetzwerk Deutschland eine ähnliche Umfrage beim renommierten IPSOS-Institut in Hamburg in Auftrag gegeben, mit dem Ergebnis, dass sich über 80 Prozent gegen Krippen aussprachen.

Jeder normal denkende Mensch fasst sich spätestens an dieser Stelle an den Kopf und fragt verzweifelt danach, wie ein ganzes Volk innerhalb weniger Tage seine Meinung derartig beeindruckend verändern kann. Die Antwort ist recht einfach: Es kommt bei Umfragen in erster Linie auf die Fragestellung und die Möglichkeiten, zu antworten, an. Hier liegt der Schlüssel für Wahrheit oder eventuelle Manipulation. Sieht man sich die Formulierung der Frage genauer an, mit der das überraschende Ergebnis vom März 2007, der Anfangsphase eines langen Entscheidungsweges der Bundesregierung zum Ausbau von 750.000 Krippenplätzen, zustande kam, kommt Licht ins Dunkel. Hier die Frage des Instituts Demoskopie Allensbach:

»Kürzlich ist vorgeschlagen worden, das Angebot an Betreuungsplätzen für Kinder unter drei Jahren in Deutschland deutlich zu erhöhen. Damit soll Müttern von kleinen Kindern die Vereinbarkeit von Familie und Beruf erleichtert werden. Halten Sie das für einen guten oder keinen guten Vorschlag?«

In dieser Frage ist – wie leicht erkennbar wird – bereits eine manipulierende Hilfestellung enthalten, sich für eine bestimmte Richtung zu entscheiden. Wenn über ein Angebot abgestimmt wird, das Müttern eine Vereinbarkeit von Beruf und Familie erleichtern will, kann man dem eigentlich nur zustimmen. Wer von den Befragten also nicht ganz genau aufpasst und blitzschnell den wahren Sinn erfasst und reagiert, gibt vielleicht eine Antwort, die er am Ende gar nicht geben wollte. Es handelt sich hierbei um eine sogenannte Suggestiv-Frage, die einem die Antwort praktisch gleich mit in den Mund legt. Und auch die Möglichkeiten der Antwort spielen eine nicht unerhebliche Rolle. So erbringt eine Wahlmöglichkeit mehrerer Antworten immer ein objektiveres Ergebnis. In diesem Fall gab es jedoch lediglich die Möglichkeit, »Ja« oder»Nein« zu sagen. Das Institut veröffentlichte seine ermittelten Zahlen übrigens zusammen mit einer für die Medien ungewöhnlich präzise vorformulierten Textofferte:

»Der Vorschlag von Familienministerin Ursula von der Leyen, das Angebot an Betreuungsplätzen für Kinder unter drei Jahren deutlich zu erhöhen, hat in den Medien zu lautstarken Diskussionen geführt. In der Bevölkerung hat das jedoch nicht zu viel Uneinigkeit geführt. Im Gegenteil, es gibt wenige sozialpolitische Fragen, in denen soviel Zustimmung und Einigkeit in der Bevölkerung bestehen. 74 Prozent empfinden den Vorschlag der Familienministerin als gut. Nur eine Minderheit von 16 Prozent glaubt, es sei keine gute Idee, die Zahl der Betreuungsplätze für Kleinkinder stark zu erhöhen.« Wer will da noch widersprechen? Schaut man sich dagegen die IPSOS–Umfrage an, die fünf Tage zuvor veröffentlicht worden war, erkennt man die faire und sachliche Fragestellung mit immerhin zwei Antwortmöglichkeiten. Hier der Text:

»Wo glauben Sie, ist ein Kind in den ersten drei Jahren am besten aufgehoben: Zu Hause bei Vater und Mutter oder in der Kinderkrippe?« Die Antwort fiel deutlich aus: 81 Prozent aller Befragten entschieden sich für das Elternhaus, 16 Prozent für die Krippe. Noch einmal: Zwischen diesen beiden Umfragen lagen genau fünf Tage. Doch wird durch diese Veranschaulichung mehr als deutlich, wie leicht die Ergebnisse sogenannter offizieller Umfragen und Statistiken von namhaften Instituten zu lenken sind, auf die sich zum Beispiel ein Bundesministerium nachdrücklich berufen kann, um konkrete Regierungsvorhaben und eventuelle Gesetzesänderungen durchzusetzen. Und es offenbart, dass auch die Realitätswahrnehmung unserer Gesellschaft durch sorgfältig geplante und gezielte Manipulation spielend leicht verändert werden kann. Auf die Allensbach-Umfrage stützen sich das Ministerium und die Medien übrigens bis heute und verweisen hartnäckig auf die genannten, durch in Wirklichkeit manipulierende Fragen erzielten  Zahlen. Diese werden bis heute von zahlreichen, durchaus »seriösen« Medien verbreitet, und niemand scheint sich je näher für die Frage interessiert zu haben, wie diese überraschend differierenden  Ergebnisse zustande gekommen waren. Wer nun vielleicht noch glauben könnte, dass die Ursache für derartig abweichende Ergebnisse in den unterschiedlichen Mentalitäten der beiden Institute zu finden sein könnte, dem sollte die Information über eine ähnliche, etwas länger zurückliegende  Umfrage im Jahr 2002 weiteren Aufschluss geben:

Dasselbe Institut »Demoskopie Allensbach«, bei dem im Jahr 2007 drei Viertel der Befragten sich gegen Krippenbetreuung aussprachen, erzielte im April 2002, zu einer Zeit also, in welcher der Ausbau von Kinderkrippen noch nicht offiziell und derart hartnäckig wie heute zum Regierungsprogramm gehörte, im Großraum Karlsruhe die beeindruckende Antwort, dass 89 Prozent aller Befragten für die häusliche Betreuung von Kleinstkindern durch die Mutter waren und ihr eindeutig den Vorrang vor einer außerhäuslichen Betreuung gaben.

Zwischen den genannten Beispielen und heute liegen nur wenige Jahre. Erkennbar ist, dass heutzutage inzwischen nahezu alle Leute im Land glauben, dass jede Frau arbeiten gehen und ihr Kind gern in die Krippe geben will. Die Gehirnwäsche hat in einem Zeitraum von drei, vier Jahren ihr Ziel erreicht. Jene Menschen, die in Wirklichkeit anders denken, befinden sich zwar in der überwältigenden Mehrheit, aber das wissen sie nicht! Und sie würden es auch nicht glauben! So funktioniert die Schweigespirale! Ein seit Jahren etabliertes Instrument der Einschüchterung und Manipulation, das freie Meinungsäußerung verhindert, indem Menschen verunsichert und falsch informiert werden. Aus Angst, sich zu isolieren, verzichten sie, häufig auch unbewusst, ihre Meinung zu sagen. Die Zeit ist gekommen, diese Schweigespirale endlich zu vernichten!

Dienstag, 30.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Enthüllungen, Politik

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jeudi, 01 avril 2010

Le progrès, un espoir du passé

Le progrès, un espoir du passé

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

mythe_du_progres-page1-2.jpgLes Européens sont de plus en plus pessimistes face à l’avenir. Depuis des années, ils font face aux changements économiques et politiques que leur impose la mondialisation. Fragilisés par la crise, ils n’ont plus confiance en la capacité de leur continent à améliorer la vie.

A la fin de l’année 2009, une majorité d’Européens pensaient que le plus dur de la crise restait à venir. Même si l’Europe n’a jamais eu la réputation d’être un continent particulièrement optimiste, la crise économique actuelle a exacerbé chez ses citoyens une attitude latente de méfiance envers l’avenir.

Selon une enquête récente de la Commission européenne, la confiance en l’avenir, et principalement dans l’économie, est beaucoup plus basse. Parmi les citoyens européens, 54 % estiment que le pire de la crise reste à venir sur le plan de l’emploi, contre 38 % qui pensent que nous avons touché le fond. Cet indice de confiance, ou plutôt de méfiance, est cependant supérieur à ce que révélait la même enquête menée au printemps.

Tandis que les États-Unis “ont conscience que l’on peut construire l’avenir, l’Europe s’est toujours montrée plus pessimiste. Et elle souffre à présent du trouble provoqué par l’arrêt du processus d’intégration européenne”, estime Fernando Vallespín, ancien président du Centre de recherches sociologiques [un organisme public d’étude de la société espagnole] et professeur de sciences politiques à l’Université autonome de Madrid. “On cherche à sortir de la crise à travers les États nationaux,” ajoute-t-il.

Il y a quelques mois encore, la majorité des citoyens européens se déclaraient satisfaits ou très satisfaits de leur vie personnelle (78 %, selon une enquête Eurobaromètre publiée fin 2009). Le niveau de satisfaction personnelle des Danois, des Luxembourgeois, des Suédois, des Néerlandais, des Finlandais et des Britanniques était supérieur à 90 %, tandis que les Espagnols restaient sous la moyenne, avec 74 %, tout comme les pays de l’est du continent, où les salaires sont les plus bas. L’Italie, qui malgré sa richesse se situe traditionnellement en deçà de la moyenne européenne, fermait le peloton avec 71 %.

Si le moral des Européens avait particulièrement décliné en automne, il semble que, grâce aux légers signes de croissance que l’on commence à enregistrer dans divers pays européens, nous relevions peu à peu la tête. Néanmoins, la crise a élargi le fossé entre le niveau de vie des pays du nord et celui des pays du sud et de l’est de l’Europe.

Une même vision de l’avenir

L’impact a été très profond, et la reconstruction prendra du temps, prévient le dernier Eurobaromètre. Avant la crise, déjà, des sociologues de divers pays exprimaient leur préoccupation face au pessimisme régnant dans la société européenne. Même le Royaume-Uni est touché, affirme le chercheur britannique Roger Liddle, ancien conseiller de Tony Blair et de José Manuel Barroso. “Pour une fois, les Britanniques et les autres citoyens de l’Union ont la même vision de l’avenir de l’Europe”, ironisait-il dans une étude publiée en 2008 portant sur “Le Pessimisme social européen”. Selon Liddle, la vision de la vie des Britanniques commençait à ressembler de plus en plus à celle des Français, des Allemands et des Italiens. “Il y avait déjà des éléments de pessimisme social au Royaume-Uni avant la crise. Ce qui est surprenant, c’est qu’on les observait même lors de périodes de prospérité économique comme 2005 ou 2007, en France, en Allemagne et au Royaume-Uni”, précise ce chercheur du centre de réflexion Policy Network, à Londres. Si le niveau de satisfaction personnel était élevé, on redoutait déjà l’avenir, signale-t-il encore, notamment en raison des difficultés à s’adapter aux changements engendrés par la mondialisation, l’immigration, etc. Et Liddle de conclure : “Évidemment, lorsque l’économie chute, ces préoccupations s’accentuent.”

Fernando Vallespín souligne quant à lui la “nouvelle situation historique” que connaît l’Europe : “Elle ne croit plus en l’idée de progrès, mais lutte pour conserver ce qu’elle possède : une position privilégiée, la meilleure avec celle des États-Unis.” L’amoindrissement du rôle de l’Europe dans l’économie mondiale “était parfaitement observable avant la crise. Lorsque l’Europe enregistrait une croissance de 2 %, la Chine enchaînait les années à 8 % ou 10 % de croissance économique”, constate de son côté José Ignacio Torreblanca, directeur du bureau de Madrid du Conseil européen des relations étrangères et professeur de sciences politiques à l’UNED [université espagnole d’enseignement à distance]. “Mais en Europe comme aux États-Unis, poursuit-il, c’est aujourd’hui que l’on s’aperçoit du retard vis-à-vis des puissances émergentes. Et la crise aggrave encore les choses.”

Sortir de la crise sans remettre en cause les avantages sociaux dont bénéficient les habitants de l’UE ? Une illusion, assure l’éditorialiste polonais Marek Magierowski.

Quelque 4 millions 48 493 personnes. C’est le nombre de chômeurs enregistrés en Espagne au début du mois. Le quotidien El Mundo a publié un reportage sur leur vie quotidienne. Teresa Barbero, une opératrice téléphonique, veut émigrer en Suisse ou en Allemagne. « Depuis 18 mois je n’ai plus de travail, mon compagnon non plus. Nous devons payer un crédit très élevé. C’est dur. On a un train de vie plus que modeste, » confie cette Madrilène de 32 ans.

La situation est similaire dans d’autres pays d’Europe occidentale tout particulièrement touchés par la crise, comme la Grèce, le Portugal et le Royaume-Uni. Malheureusement les remèdes employés par les gouvernements pour guérir leurs économies sont eux aussi systématiquement les mêmes. Une intervention croissante de l’État dans l’économie, des impôts plus élevés, et des mantras répétés sur les « véritables » coupables de la crise, à savoir les banquiers cupides et les spéculateurs. Et surtout gare à ceux qui oseraient s’élever contre les privilèges de tel ou tel autre groupe social, ils vont droit à une mini guerre civile avec des grèves, une pluie de pavés, et des canons à eau. L’Europe arrivera-t-elle à rivaliser avec la Chine?

Le Vieux Continent est dans l’impasse. Depuis des années, les hommes politiques européens remportent des élections grâce à des promesses d’emplois et de salaires décents, de logements accessibles à tous, de longues vacances et d’une vie heureuse et sans risque. Dans l’une de ses premières déclarations publiques, le président du Conseil européen, Herman Van Rompuy, a affirmé que l’Union devait assurer le maintien du mode de vie européen, comme s’il ne savait pas que cela représente pour l’Europe le chemin le plus court vers une catastrophe économique.

Le mode de vie européen, c’est aussi le prélèvement de la moitié des revenus des contribuables, les 35 heures hebdomadaires de travail, une dette publique supérieure au PIB. Le mode de vie européen, c’est souvent un hymne à la paresse et le mépris du capitalisme. C’est aussi la conviction largement répandue que l’État sera toujours là pour nous prêter main forte dans des moments difficiles. C’est de cette manière que l’Europe compte rivaliser avec la Chine ? Vous voulez rire !

Source: Press Europ, Article 1, Article 2.

lundi, 01 mars 2010

Deutschlands Kinder schlagen Alarm! Fehlende Zeit mit den Eltern, immenser Gruppendruck!

Deutschlands Kinder schlagen Alarm! Fehlende Zeit mit den Eltern, immenser Gruppendruck!

Eva Herman : http://info.kopp-verlag.de/

Aktuelle Untersuchungen zeigen: Nie zuvor fühlten sich Kinder und Jugendliche derartig gestresst und besorgt wie heute. Die Ergebnisse legen den Rückschluss nahe: Kinder werden zu früh in Gruppen abgegeben, ihre Eltern verlieren zunehmend Einfluss und können ihren Kindern, bedingt durch berufliche Abwesenheit, in kleinen und großen Notsituationen häufig nicht helfen.

pourquoi-lire-des-histoires-aux-jeunes-enfants-3549492ezome_1350.jpgKinder und Jugendliche sind unsicher und ängstlich wie nie: Alle Umfragen und Studien der zurückliegenden Jahre signalisieren: Kinder und Jugendliche fürchten sich vor der Zukunft!

Alle aktuellen Untersuchungen zur Schulsituation in Deutschland bestätigen: Nie zuvor gab es größere Probleme zwischen Lehrern und Schülern!

Alle derzeitigen Aussagen von Berufsausbildern Jugendlicher laufen auf die eine Aussage hinaus: Zu keinem Zeitpunkt waren die jungen Leute unqualifizierter für das Berufsleben als heute!

Der Alltag der Jugendlichen ist zunehmend geprägt durch »Gefühle der Ohnmacht und des Alleinseins, der Sinnleere und Perspektivlosigkeit«, heißt es schon in der Studie Jugend 2007 – zwischen Versorgungsparadies und Zukunftsängsten, die das Rheingold-Institut für qualitative Markt- und Medienanalysen im Auftrag von Axel-Springer-Mediahouse durchgeführt hat. Mobbing, Gewalt und die immer mächtiger werdende Angst vor dem Abgleiten in ein Hartz-IV-Dasein steigerten das Gefühl der Verunsicherung und der Orientierungslosigkeit. »Selbst die Jugendlichen, die sich noch materiell abgesichert fühlen, erleben die Zukunft als ein schwarzes Loch. Sie wissen nicht, wofür sie gebraucht werden, wofür sie kämpfen und wogegen sie rebellieren können«, so die Rheingold-Untersuchung.

Die neueste und aktuellste Studie des Instituts für Psychologie und des Zentrums für angewandte Gesundheitswissenschaften (ZAG) der Leuphana-Universität Lüneburg für die Deutsche Angestellten Krankenkasse (DAK) schlägt erneut Alarm: 33 Prozent aller Schüler in Deutschland sind gestresst!

Folgende Stress-Symptome wurden festgestellt:

– Einschlafprobleme (22 Prozent)

– Gereiztheit (21 Prozent)

– Kopfschmerzen und Rückenschmerzen (16 Prozent)

– Niedergeschlagenheit (14 Prozent)

– Nervosität (11 Prozent)

– Schwindelgefühle (9 Prozent)

– Bauchschmerzen (8 Prozent)

Das Portal für Bildungsinformationen bildungsklick.de hat die DAK-Studie ausgewertet, aus der hervorgeht, dass mehr als 50 Prozent der Betroffenen ihre Gefühle in der Schule mit »verzweifelt, hoffnungslos, ausweglos« beschrieben. »Insgesamt geben mehr als zwei Drittel der Schüler mit häufigen Beschwerden an, dass sie in der Schule regelmäßig negative Gefühle erleben. … Schweigen und Verdrängen macht alles noch schwieriger.«

Kinder und Jugendliche von heute haben enorme Zukunftsängste.

Die letzte Shell-Jugendstudie hatte schon Vergleichbares als Ergebnis: Sie zeigt, dass Jugendliche deutlich stärker besorgt sind, ihren Arbeitsplatz verlieren beziehungsweise keine adäquate Beschäftigung finden zu können. Waren es im Jahr 2002 noch 55 Prozent, die hier beunruhigt waren, stieg die Zahl 2006 bereits auf 69 Prozent an. Auch die Angst vor der schlechten wirtschaftlichen Lage und vor steigender Armut nahm in den Jahren zwischen 2002 und 2006 von 62 Prozent auf 66 Prozent zu.

Die Bewältigungsstrategien, die Jugendliche entwickeln, um mit ihren Schwierigkeiten fertig zu werden, sind laut der Rheingold-Untersuchung sehr verschieden. Die einen betreiben Dauerkonsum, andere schotten sich ab und flüchten in die künstlichen Paradiese von Internet und Playstation-Welten. Von der einstigen Spaßgesellschaft, in der alles »ganz easy« lief, sind lediglich vereinzelte Bruchstücke übrig geblieben.  

Zahlreiche Kinder und Jugendliche in Deutschland stehen heute unter einem enormen Druck, der insbesondere von den Gleichaltrigen in den sogenannten Peer Groups ausgeübt wird. Die Orientierung an Gruppenstandards wird in diesem Zusammenhang jedoch oft ignoriert oder bewusst heruntergespielt. Nach Aussagen des kanadischen Psychologen Gordon Neufeld ist die zunehmende Gleichaltrigenorientierung in unserer Gesellschaft von einem alarmierenden und dramatischen Anstieg der Selbstmordrate unter 10- bis 14-Jährigen begleitet, seit 1950 hätte sie sich in dieser Altergruppe in Nordamerika vervierfacht. Ist man bisher davon ausgegangen, dass bei Selbsttötungen junger Menschen die Gründe meist in der Ablehnung der Eltern zu finden sind, ist das nach Ansicht Neufelds inzwischen lange nicht mehr so. Langjährige Beobachtungen und Untersuchungen des Psychologen lassen den Schluss zu, dass der wichtigste Auslöser für den jugendlichen Suizid in der Behandlung durch die Gleichaltrigen zu sehen ist. Je öfter und regelmäßiger Kinder und Jugendliche ihre Zeit mit Personen gleichen Alters teilen, und je wichtiger sie in dieser Gruppe füreinander werden, umso verheerender kann sich ihr unsensibles Verhalten auf jene Kinder auswirken, die es nicht schaffen, dazuzugehören und die sich abgelehnt oder ausgeschlossen fühlen.

Auch in anderen Ländern ist das Phänomen bekannt: Die amerikanische Zeitschrift für Kultur, Politik und Literatur, Harper’s Magazine, druckte vor einiger Zeit eine Sammlung von Abschiedsbriefen japanischer Kinder ab, die Selbstmord verübt hatten: Die meisten von ihnen litten unter der unerträglichen Tyrannisierung durch Gleichaltrige und gaben dies als Grund  an für ihren Entschluss, aus dem Leben zu gehen.

Gruppendruck kann große Ängste verursachen, aber auch Hass auslösen. Der Student Cho Seung-Hui fühlte sich in »die Ecke gedrängt« – das gab er wenigstens als Grund an, nachdem er im April 2007 auf dem Campus von Blacksburg im amerikanischen Bundesstaat Virginia 32 Menschen getötet hatte. Die Wut und das Bedürfnis nach Vergeltung können über Jahre wachsen, Jahre, in denen Rachepläne geschmiedet und Vorbereitungen getroffen werden können. Schließlich kommt der Punkt, an dem die Wut zu groß wird: Alle sollen endlich erfahren, was sie dem Betroffenen angetan haben. Ähnlich der Amoklauf von 2001 in Erfurt, bei dem der 19-jährige Robert Steinhäuser am Gutenberg-Gymnasium 16 Personen und dann sich selbst tötete. Er war von der Schule verwiesen worden.

Schon zu Beginn der 1960er-Jahre warnte der amerikanische Soziologe  James Coleman davor, dass die Eltern als wichtigste Quelle für Werte und als Hauptbezugsperson für ihre Kinder und deren Verhalten verdrängt würden – und zwar durch gleichaltrige Bezugspersonen. Doch damals war das noch kein Thema, beginnende Fehlentwicklungen bei Jugendlichen wurden – insbesondere in Deutschland – mit dem Dilemma der Eltern erklärt, die sich nicht mit den Folgen des zurückliegenden Krieges auseinandergesetzt hätten.  

enfants-2696052kjcby_1350.jpgDer kanadische Psychologe Gordon Neufeld geht davon aus, dass eine starke Gruppensozialisation bei Kindern und Jugendlichen auch Auswirkungen auf das spätere Verhalten im Erwachsenenalter hat: Wer sehr jung die Gruppe als Lebensrealität empfunden und kennen gelernt hat, und wem die Erfahrungen des Alleinseins, aber auch die einer Familie und dem damit verbundenen Zusammenhalt fehlen, der verlässt sich später auch nicht auf sich allein. Extreme Erscheinungsformen der Gleichaltrigenorientierung  sind nach seiner Meinung tyrannisierendes Verhalten mit Gewaltanwendung, Selbstmorde und Morde unter Kindern und Jugendlichen. Auch die inzwischen allseits  bekannten Massenpartys mit Höhepunkten wie Koma-Sauf-Wettbewerbe oder Gang-Bangs, also Massenvergewaltigungen, bei denen die Mädchen vorher zustimmen, können zu diesen Folgen zählen.

Heutige Jugendliche stehen oft als Krawallmacher, Schläger oder Kleinkriminelle in der Zeitung oder sie scheinen langweilig, angepasst und konturlos zu sein. Die Schere geht auseinander zwischen extrem gewaltbereiten Jugendlichen und kleinen Spießern. Wo sind die jungen Leute mit Idealismus, mit festen Zielen vor den Augen, mit Ecken und Kanten, mit »Flausen im Kopf«? Keine Frage: Jede Elterngeneration hat den Kopf geschüttelt über die Jugendlichen ihrer Zeit. Doch das Phänomen, dass die einen viel zu wenig rebellieren und die anderen erschreckend über das Ziel hinausschießen, ist neu. Die Jugendlichen von heute scheinen zum einen emotionslos, gelangweilt und unterkühlt zu sein, die anderen verroht und gewaltbereit.

Immer mehr Jugendliche haben Angst davor, ihren Platz im Leben nicht zu finden, nicht gebraucht zu werden. Sie isolieren sich, statt sich abzunabeln – aus Angst, dem Leben nicht die Stirn bieten zu können. Das haben sie nie gelernt. Die einen wurden sich selbst überlassen, den anderen wurde jedes Problem abgenommen, jeder Wunsch erfüllt.

Doch alle genannten Phänomene, die unsere Gesellschaft nachhaltig verändern, sind Hilfeschreie der Kinder. Sie brauchen von Anfang an entscheidend mehr Zeit mit ihren Eltern, mehr Zuwendung und mehr Liebe! Wenn sie erst einmal daran gewöhnt sind, dass ihre Eltern keine Zeit für sie haben, dann ist der Zug häufig schon abgefahren. Alle derzeitigen Regierungsprogramme jedoch glorifizieren nach wie vor die Erwerbstätigkeit der Mütter. Solange das nicht zugunsten der Kinder geändert wird, und solange keine nachhaltigen Bemühungen daran gesetzt werden, Kindern die Anwesenheit ihrer Eltern, speziell der Mutter, zu ermöglichen, wird diese Gesellschaft weiter auseinanderfallen und die genannten Zahlen und Probleme werden weiter steigen.

 

Freitag, 12.02.2010

Kategorie: Allgemeines, Wissenschaft, Politik

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samedi, 27 février 2010

Die tiefe Krise der Männer

Die tiefe Krise der Männer

Eva Herman : Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Das männliche Geschlecht befindet sich auf rasanter Talfahrt: Während die Emanzipation die Frauen in den zurückliegenden Jahrzehnten allerorten in ungeahnte Machtpositionen hievte, und weltweite Gender-Mainstreaming-Maßnahmen ebenso ausschließlich die Förderung von Frauen vorsehen, kämpfen die Männer zunehmend um die Existenz ihres Geschlechtes. Schon die Feministinnen in den 1970er-Jahren predigten die Männer entweder als Weicheier oder Machos schlecht. Dazwischen gab es kaum etwas, was männlich und gleichzeitig etwa sympathisch oder normal sein konnte.

manliness-1.jpgDie verhängnisvolle Entwicklung der Männerverachtung findet für den Vertreter des männlichen Geschlechts ihren frühen Anfang heutzutage schon in Kindergarten und Schule: Ein Blick auf das derzeitige Schulsystem allein genügt, um festzustellen: Hier werden haufenweise Verlierer produziert, die Mehrheit ist männlich.

In Kinderkrippen, Kindergärten und in den Schulen fehlen überall männliche Vorbilder! Die Kinder werden vorwiegend von Frauen betreut und erzogen, diese bevorzugen in aller Regel, teils bewusst, teils unbewusst, die Mädchen.

Durch die Feminisierung in der Erziehung werden für die Kinder hier die künftig geltenden Verhaltensstandards festgelegt: Diese werden nahezu ausschließlich aus dem Verhalten der Mädchen entwickelt. Ohne Rücksicht darauf, dass Jungen naturgemäß ein völlig anderes Benehmen haben. Männliches Verhalten wie durchaus natürliche Rangeleien und hierarchiebedingte Kämpfe werden allermeist durch aus weiblichem Harmoniestreben resultierende Maßnahmen im Keime erstickt. Dadurch geraten die Jungs ins Hintertreffen, die Gefahr, dass sie ihre Geschlechteridentität nicht naturgemäß ausbilden können, schlägt sich auf die Leistungen nieder. 

Der Vorsitzende des Bayerischen Philologenverbands, Max Schmidt, betonte in einem Spiegel-Interview: »Sowohl in der Grundschule, aber auch während der Pubertät, ist es wichtig, dass Jungen und Mädchen in männlichen und weiblichen Lehrkräften positive Rollenvorbilder erleben.« Das zunehmende Verschwinden von Männern aus den Schulen erschwere gerade den Jungen die Auseinandersetzung mit der eigenen Rollenidentität.

Das sehen auch andere Experten so: Eine letztjährige Studie des Aktionsrates Bildung bestätigt, dass der Grund für die Zensurenlücke vornehmlich darin zu finden ist, dass Jungen in Kindergarten und Schule massiv benachteiligt würden. Nicht mehr die Mädchen, sondern die »Jungen sind die Verlierer im deutschen Bildungssystem«, sagt der Ratsvorsitzende und Präsident der Freien Universität Berlin, Dieter Lenzen. Statt auszugleichen, verstärke die Schule den Bildungs- und Leistungsrückstand der Jungen. Jungen haben laut Lenzen oftmals gar nicht die Chance, eine ausgereifte Geschlechtsidentität zu bilden, da sie im Kindergarten und in der Grundschule meist mit Erzieherinnen und Lehrerinnen konfrontiert seien. In keinem Bundesland liegt der Anteil männlicher Erzieher in den Kindertagesstätten bei mehr als zehn Prozent.

Auch das Bundesbildungsministerium bestätigt diese verhängnisvolle Entwicklung. Eine Untersuchung ergab: In der Grundschule sehen sich Jungen einer weiblichen Übermacht an Lehrkräften gegenüber – und werden von den Lehrerinnen häufig benachteiligt. Der Hallenser Bildungsforscher Jürgen Budde stellte in dem Bericht fest, dass Jungen in allen Fächern bei gleicher Kompetenz schlechtere Noten bekommen als ihre Mitschülerinnen. Selbst wenn sie die gleichen Noten haben wie Mädchen, empfehlen die Lehrer ihnen seltener das Gymnasium. Einfach ausgedrückt: Jungen werden bei gleicher Leistung schlechter behandelt.

Der Schulabschluss bestimmt den weiteren Lebensweg, die persönliche Arbeitsbiografie wird hier festgelegt. Dementsprechend sind junge Männer häufiger erwerbslos. Aus einem individuellen Problem erwächst inzwischen längst eine hoch gefährliche Gesellschaftskrise.

Jungs werden häufig von Anfang nicht richtig eingeschätzt und verstanden. Ihre männlichen Verhaltensweisen sollen denen der Mädchen angepasst werden, dementsprechend werden sie nicht selten unter falschen Voraussetzungen erzogen. Oft können sie ihr wahres männliches Inneres nicht leben, der Kern ihres Mannseins wird unterdrückt.

Vielen Jungen fehlt außerdem die männliche Vorbildfigur, an der sie sich orientieren könnten und dies auch dringend tun müssten. Jungen, die bei ihrer alleinerziehenden Mutter aufwachsen, sind in weitaus höherem Maße gefährdet. Schon der Psychologe Alexander Mitscherlich sprach einst von der »vaterlosen Gesellschaft« und meinte damit die Nachkriegsgeneration, deren Väter entweder im Krieg gefallen waren oder gebrochen zurückkehrten. Heute hat der Begriff wieder neue Aktualität bekommen. Väter verlassen die Familien, entziehen sich oder wollen schlicht keine starken Vorbilder mehr sein, aus Angst, sie könnten als hirnlose Machos gelten.

Auch unsere unheilvolle Geschichte hat tiefe Spuren hinterlassen. Ist ein starker Mann nicht schon ein Faschist? Ist einer, der sich zum Mannsein bekennt, nicht schon ein Soldat? Stärke wurde ein Synonym für das Böse, das unterworfen werden musste. Wer offensiv auftritt, ist einfach nicht politisch korrekt. Eroberer haben keine Chance.

Und so flüchten sich Jungen und Jugendliche häufig in Traumwelten, die sie im Fernsehen und bei den Abenteuer- und Ballerspielen auf dem Computer, der Playstation oder dem Gameboy finden. Hier, in der Fantasy-World, herrschen ausgesprochen männliche, körperlich starke, kämpfende Helden, die souverän alle Feinde besiegen und töten. Mit ihnen lässt es sich trefflich  identifizieren, wenigstens in der Fantasie. Immer mehr Jungen und junge Männer verbringen täglich viele Stunden vor interaktiven Medien, die sie zusehends von der Außenwelt, vom sozialen Miteinander abtrennen, die sie weiter in die gesellschaftliche Isolation treiben und zunehmend den Realitätsbezug verlieren lassen. Dieses Phänomen ist nicht auf die Kindheit und die Pubertät beschränkt, auch erwachsene Männer spielen lieber den omnipotenten Helden in der Fantasie, als im Leben ihren Mann zu stehen.

Was bleibt ihnen auch anders übrig?, könnte man fragen. Wenn Männer ihre Rechte einfordern wollen, stürzt sich alsbald ein Haufen wütender Frauen auf sie und verteidigt energisch das ständig größer werdende Stück Land, das sie in den letzten Jahrzehnten einnahmen. Rechte für die Männer? Die haben doch alles, was sie brauchen! So lautet das Vorurteil. Die Zeit der Alphatierchen sei vorbei, verkündete die ehemalige Bundesfamilienministerin Ursula von der Leyen, die sich stets auf die Seite erwerbstätiger Frauen schlägt, im März 2007 im Stern.

Männer sollen durch politische Maßnahmen wie ein zweimonatiges Elterngeld für Väter und eine neue öffentliche, mit aller Macht forcierte Geisteshaltung nach Hause gezwungen werden. Sie sollten mehr als »nur den Müll runterbringen«, schließlich arbeite die Frau schwerer als sie, weil sie zusätzlich noch die Kinder versorgen müsse.

Unbehagen macht sich breit. Auch wenn nur ein geringer Prozentsatz der Männer wirklich auf diese Forderungen eingeht, so plagt ihn doch das schlechte Gewissen, das man ihm einredet. Wer aber will sich auf Dauer nur noch verteidigen? Dann doch lieber die Flucht nach vorn, die Flucht in den Job, wo man auch mal jemanden anbrüllen darf, die Flucht auf den Fußballplatz, wo man sich aggressiv zu seiner Mannschaft bekennt. Oder die finale Flucht aus der Familie.

Während alle Jugendstudien die Mädchen zur »neuen Elite« küren, mehren sich die mahnenden Stimmen, die vor einer »entmännlichten Gesellschaft« warnen.

Experten fordern zu drastischen Maßnahmen auf: Der Jugendforscher Klaus Hurrelmann verlangt eine Männerquote für Lehrer und Erzieher. Der Deutsche Philologenverband will eine Leseoffensive für Jungen an Schulen einrichten.

Alle Studienergebnisse über die Leistungskrise der Jungs sprechen ihre eigene Sprache:

– Jungs bleiben doppelt so oft sitzen wie Mädchen, fliegen doppelt so häufig vom Gymnasium und landen doppelt so oft auf einer Sonderschule. An Haupt-, Sonder- und Förderschulen machen Jungen heute rund 70 Prozent der Schüler aus;

– Schätzungen zufolge leiden zwei- bis dreimal so viele Jungen unter Leseschwäche;

– 62 Prozent aller Schulabgänger ohne Abschluss sind Jungen;

– 47 Prozent aller Mädchen gehen auf ein Gymnasium, bei den Jungen sind es nur 41 Prozent;

– Ein Drittel der Mädchen macht Abitur oder Fachabitur, aber nur ein knappes Viertel der Jungen;

– Abiturnoten von Jungen sind im Schnitt eine Note schlechter, als die ihrer Mitschülerinnen;

– Junge Frauen stellen die Mehrheit der Hochschulabsolventen und brechen ihr Studium seltener ab;

– 95 (!) Prozent der verhaltensgestörten Kinder sind männlichen Geschlechts;

– Jungen stellen zwei Drittel der Klientel von Jugendpsychologen und Erziehungsberatern;

– Aggression ist ein Problem, das vor allem Jungs betrifft: Unter den Tatverdächtigen bei Körperverletzungen sind 83 Prozent Jungen;

– Unter »jugendlichen Patienten, die wegen der berüchtigten ›Aufmerksamkeitsdefizit-Hyperaktivitätsstörung‹ (ADHS) behandelt werden müssen«, sind laut Spiegel Online »überdurchschnittlich viele Jungen: Auf sechs bis neun Zappelphilippe komme, meldet das Universitätsklinikum Lübeck, lediglich eine Zappelphilippine«.  (Erziehungstrends.de)

Der Präsident der Vereinigung der Bayerischen Wirtschaft (vbw), Randolf Rodenstock, warnte im vergangenen Jahr angesichts der vielen männlichen Schulabgänger ohne Abschluss, dass man es sich nicht leisten könne, so viele junge Männer auf dem Bildungsweg zu verlieren. Deutschland steuere langfristig auf einen Arbeitskräftemangel zu, der durch die aktuelle wirtschaftliche Lage nur verzögert werde.

In Ostdeutschland sieht die Lage übrigens noch trostloser aus, hier laufen die Frauen den Männern gleich scharenweise davon. Nicht nur, weil sie im Westen bessere Berufs- und Ausbildungsmöglichkeiten bekommen, sondern weil sie dort auch Männer finden, die ihrem starken Selbstbewusstsein etwas entgegenzusetzen haben. So titelten denn auch unlängst gleich mehrere Tageszeitungen in etwa so: Frauen verlassen Osten! Männer erheblich benachteiligt! Oder: Ist der Mann im Osten bald allein?

Diesen alarmierenden Aussagen lag eine Studie des Berliner Instituts für Bevölkerung und Entwicklung zugrunde, der zufolge in den Neuen Bundesländern »eine neue, männlich dominierte Unterschicht« entstanden sei. Während vor allem gut ausgebildete Frauen zwischen 18 und 29 Jahren ihre Heimat verließen, würden viele junge Männer mit schlechter Ausbildung und ohne Job zurückbleiben. In manchen strukturschwachen Regionen fehlten bis zu 25 Prozent Frauen, diese Gebiete seien besonders anfällig für rechtsradikales Gedankengut, so die Studie. Das Frauendefizit in Ostdeutschland wurde übrigens als einmalig in Europa bezeichnet. »Selbst in Polarregionen, im Norden Schwedens und Finnlands reiche man an die ostdeutschen Werte nicht heran«, hieß es.

Abgesehen davon, dass Deutschland zunehmend der männliche Aspekt verloren geht, der jedoch unverzichtbar für eine Gesellschaft des natürlichen Ausgleichs ist, müssen Männer die Frauen immer häufiger als Konkurrentinnen sehen, weil diese, gestützt durch sämtliche, gesetzlich verankerte Gender-Mainstreaming-Maßnahmen, bevorzugt werden und somit selbstverständlich und offensiv auftreten, zudem sie auch immer besser qualifiziert sind.

Frauen erobern eine männlich geprägte berufliche Domäne nach der anderen. Schwere körperliche Arbeit, die Männer leichter bewältigen können als Frauen, wird durch die zunehmende Technisierung der Arbeitswelt nahezu überflüssig und existiert kaum noch. Frauen können in jeden beliebigen Beruf einsteigen: als Pilotin ebenso wie als Soldatin, Lkw-Fahrerin, Managerin, Ministerin, Kanzlerin.

Und während die holde Weiblichkeit alle Erfolgsgrenzen sprengt, ziehen sich die Männer zunehmend zurück. Zwar sollen sie durch Brüssels Gesetze nun vermehrt den Hausmann geben und sich der Kindererziehung widmen, damit sie den gestressten, erwerbstätigen Ehefrauen den Rücken freihalten. Doch sind diese Maßnahmen wohl kaum dazu geeignet, männliches Verhalten in seiner ursprünglichen Natur zu fördern.

Der Medienexperte Norbert Bolz macht vielmehr auf die Gefahr aufmerksam, dass Männer sich wieder an ihrer Muskelkraft orientieren würden, wenn sie sich ihrer sexuellen Rollenidentität als klassischer Vater und Versorger beraubt sehen. Das erklärt die rasante Zunahme aller möglichen sportlichen Aktivitäten, die bis ins Rauschhafte gesteigert werden können. Die Männer brauchen den Sport. »Sport als Asyl der Männlichkeit ist eine genaue Reaktionsbildung darauf, dass die Zivilisation als Zähmung der Männer durch die Frauen voranschreitet«, so Bolz. »Vormodern war die Aufgabe, ein ›richtiger‹ Mann zu sein, vor allem eine Frage der Performanz; man musste gut darin sein, ein Mann zu sein. Heute gilt das nur noch im Sport. Er bietet den Männern einen Ersatzschauplatz für die Kooperation der Jäger. Nur im Sport können Männer heute noch den Wachtraum erfolgreicher gemeinschaftlicher Aggression genießen, also die Gelegenheit, körperlich aufzutrumpfen.«

Bolz schätzt  dies als offensichtliches Kompensationsgeschäft ein, das unsere moderne Kultur den Männern anbietet: »Seid sensible, sanfte Ehemänner und fürsorgliche Väter – am Samstag dürft ihr dann auf den Fußballplatz und am Sonntag die Formel eins im Fernsehen verfolgen: heroische Männlichkeit aus zweiter Hand.«

Aber werden solche Männer tatsächlich von den Frauen begehrt? Hier sind erhebliche Zweifel wohl angebracht. Denn so erfolgreich die Frauen auch werden mögen, so wenig wollen sie als männliches Pendant den Windelwechsler und Küchenausfeger, sie wollen vielmehr einen echten Mann!

Die meisten Frauen verachten »schwache Typen« gar, spätestens, wenn es um ihre eigene Beziehung geht. So ist es ja umgekehrt auch kaum vorstellbar, dass eine Frau einen Partner vorzieht, der sich von anderen Männern dominieren lässt, der also nicht in der Lage ist, sich Respekt und Achtung zu verschaffen. Frauen wollen Männer, die erfolgreich sind. Weicheier jedoch sind weit von Erfolgs- und Überlebensstrategien entfernt. Die Evolutionsforschung ist da eindeutiger und klarer, so Norbert Bolz: »Frauen tauschen Sex gegen Ressourcen, während Männer Ressourcen gegen Sex tauschen. Das funktioniert aber nur unter Bedingungen strikter Geschlechterasymmetrie – in der modernen Gesellschaft also: nicht!«

Die Untersuchung der amerikanischen Hirnforscherin Louann Brizendine in ihrem Buch Das weibliche Gehirn weist überzeugend nach, dass männliche und weibliche Gehirne sich wesentlich unterscheiden, was eine Fülle von spezifischen Wahrnehmungs- und Verhaltensweisen nach sich zieht. So ist beispielsweise das Sprachzentrum der Frauen ungleich stärker herausgebildet, als das der Männer. Louann Brizendine formuliert dies äußerst humorvoll: Dort, wo die Sprache verarbeitet wird, existiere bei Frauen gewissermaßen ein mehrspuriger Highway, bei den Männern dagegen nur eine schmale Landstraße.

Was im naturwissenschaftlichen Zusammenhang als Tatsache hingenommen wird, gilt aber plötzlich als rückständig, wenn es um die sozialen Beziehungen geht. Eine ernsthafte Betrachtung der klassischen Geschlechterbestimmungen ist heute längst in den Hintergrund gerückt und so gut wie überhaupt nicht mehr möglich. Politisch und gesellschaftlich korrekt und gewollt ist vielmehr das Herbeiführen »modernerer Verhaltensweisen«, die Mann und Frau gleichmachen.

Es geht nicht mehr um Respekt für »das Andere« bzw. »den Anderen« oder um den Mann an sich, sondern um Gleichberechtigung für Frauen. Die Medien tragen kräftig zu dieser Sicht der Dinge bei: Sie fördern einseitig das Erfolgsmodell »berufstätige Mutter«, die Multitaskerin, die Kind, Küche und Karriere locker unter einen Hut bringt. Frauen, die Familien- und Hausarbeit leisten, werden als fantasielos, rückständig und dumm dargestellt. Die Medien verleugnen und missachten damit häufig zugleich den Erfolg berufstätiger Väter, die eine ganze Familie mit ihrer Erwerbsarbeit ernähren. Das »Allein-Ernährer-Modell« wird nur noch selten honoriert, selbst da, wo es funktioniert, stehen die Männer schnell unter dem Verdacht, typische Unterdrücker zu sein. 

Umgekehrt fordern jetzt auch immer mehr Männer, dass Frauen ihr eigenes Geld dazu verdienen sollen. So wird aus dem einstigen Emanzipationswunsch der Frauen, die ihre Berufstätigkeit als Beweis für Selbstbestimmtheit und Selbstverwirklichung betrachteten, ein Bumerang. Im Klartext: Frauen, die auch nur für wenige Jahre aus der Erwerbstätigkeit aussteigen möchten, um sich um die Familie zu kümmern, gelten nun als Drohnen.

Was diese Gesellschaft erlebt, ist eine erschreckende Mobilmachung der Ressource Frau für den Arbeitsmarkt. Um das zu rechtfertigen, müssen die Männer herhalten: »Väter sind mindestens ebenso gut für die Erziehungsarbeit der Kleinsten qualifiziert wie die Mütter und sollten diese auch unbedingt wahrnehmen«, befand die amtierende Bundesfamilienministerin. Eine Schutzbehauptung, die Frauen zur Erwerbstätigkeit motivieren soll.

Wenn die Männer als Kinderbetreuer eingesetzt werden, ist das allerdings nicht so simpel, wie die Rollentauschfantasie der Ministerin es glauben machen will.

Und die Männer? Sie schweigen. Sie wollen nicht mehr reden. Sie wollen sich vor allem nicht mehr verteidigen. Sie wollen nicht mehr die willigen Versuchskaninchen in einem gesellschaftlichen Experiment sein, dem sie ihre Wünsche und ihre Identität opfern sollen. Hinter ihnen liegt oft ein Hindernis-Parcours der Streitigkeiten und Auseinandersetzungen, die alle Liebe, alles Vertrauen, alle Selbstverständlichkeit aus den Beziehungen vertrieben haben. Achselzuckend gehen sie ihrer Wege, überzeugt, dass sie eine feste Beziehung nicht mehr ertragen können.

Die moderne Gesellschaft täte gut daran, sich endlich entschieden gegen die durch die künstliche Geschlechterwelt der durch Feminismus und Gender-Mainstreaming übergestülpten Programme zur Wehr zu setzen, um den für alle Gesellschaften natürlichen Ausgleich durch das männliche und das weibliche Prinzip zurückzuerobern und als für alle Zeiten notwendiges Überlebensprogramm festzuschreiben. Anderenfalls kann man getrost für die Spezies Mensch schwarz sehen!

 

Mittwoch, 17.02.2010

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